AL DI LA’ DEL MEKONG
Abbiamo lo stesso sangue

Abbiamo lo stesso sangue

Alcuni medici raccontano quanta fatica facciano a dimettere quegli anziani sopravvissuti al virus. I parenti, i figli, a casa non li vogliono. Come se non condividessero più lo stesso sangue

 

Pierluigi Battista sulla pagine del Corriere ha ribadito che «se dobbiamo sperare in qualcosa che ci faccia uscire da questo incubo non è nella benevolenza di una divinità naturale, … ma nella sapienza razionale dei laboratori che in tutto il mondo stanno studiando per ottenere terapie e vaccini: con la ragione, non con la superstizione, per salvarci tutti insieme, non per scontare peccati e crimini mai commessi».

Nulla da eccepire. Presto il coronavirus entrerà nel vocabolario con tutta la sua potenza semantica, fitta di ricordi e di dolore, e ci aiuterà finalmente a nominare quei problemi la cui soluzione non può venire solo dai laboratori. Servirà, il coronavirus, come immagine e metafora, a nominare la burocrazia italiana quando soffoca il bene; la politica quando ha il fiato corto degli antagonismi (e taglia i fondi alla sanità pubblica). Servirà a nominare la violenza di un uomo quando afferra alla gola e soffoca la sua amata, o il linguaggio quando nei suoi tortuosi sofismi soffoca la Verità. Servirà a nominare la ragione quando taglia le ali all’anima, la soffoca, con un sommario, indistinto e ignorante riferimento alla superstizione.

Di fronte alle tante persone morte, la fede ha un respiro più ampio della conta dei peccati. Ha riserve di senso che possono avvalorare e impreziosire tutto questo dolore, insieme al sacrificio di tanti, perché nulla vada perduto. La sapienza razionale dei laboratori di questo mondo arriverà ad una soluzione terapeutica, ma non saprebbe trasformare tutte queste morti né in conversione per l’oggi, né in gloria per la vita futura.

Maddalena, 74 anni, colpita dal virus. I volontari l’hanno portata via in ambulanza. «Una delle sue figlie ha suggerito ai nipoti di salutarla a voce più alta. “Ho pensato a un migliaio di cose”, ha ricordato la figlia. “Non abbandonarmi. Signore aiutaci. Signore salva mia madre”. La porta dell’ambulanza si è chiusa». «È una donna di profonda fede cattolica, … la faceva soffrire l’idea che, se le cose fossero andate male, “non potremo fare un funerale”» (1). Solo superstizioni?

No!, «La religione, per questa gente – direbbe don Carlo Gnocchi – non è mai un momento o un episodio; è uno stato, una forma, un modo di vita; sangue vivo e succo vitale. Una disposizione permanente e quasi istintiva verso l’eterno, che dà sapore e colore…» (2).

E anche la morte, incombente, nella fede trova un destino, un Volto. Scrive San Paolo che «nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore» (Rom 14, 7-8). Se solo comprendessimo questa intima e reciproca appartenenza, della nostra vita con la vita di Cristo, della nostra morte con la Sua; se solo comprendessimo la preziosità di ogni sofferenza se inserita in quella di Cristo, avremmo toccato «il centro più profondo e più inesplorato, il più originale ed operante di tutto il cristianesimo… il punto verginale della dottrina di Cristo» (3).

Ad Arezzo, c’è un dipinto che ritrae San Francesco aggrappato ai piedi di Gesù in croce. Dai piedi del Cristo cola sangue che attraversa le stigmate di Francesco e diventa un solo e unico sangue, una sola morte, una sola redenzione. È «il fiume del Sangue Divino – continua don Carlo – che si arricchisce per la confluenza dell’umano dolore ed è nel fiume divino che ogni stilla di sofferenza umana e di pianto acquista valore soprannaturale di redenzione e grazia» (4). Dopo Cristo «non è più possibile altra redenzione che non sia “cristiana” e il sangue dell’uomo non ha potere di purificazione e di pacificazione se non è versato e commisto a quello di Cristo …» (5).

Questa commistione, questo confluire di sangue umano e divino è il centro, profondo e inesplorato, «il punto verginale della dottrina di Cristo». Il mistero di uno stesso sangue, di una stessa vita, di uno stesso destino tra noi e Dio. Ché ci autorizza a pensare ad uno stesso sangue, una stessa vita, uno stesso destino anche tra di noi. Più forte e più saldo dell’evidenza biologica, spesso insufficiente a generare l’amore. Solo da questa coscienza, da questo punto verginale, viene la salvezza.

Non sono superstizioni, ma una verità necessaria. Tanto più ora che alcuni medici raccontano quanta fatica facciano a dimettere quegli anziani sopravvissuti al virus. I parenti, i figli, a casa non li vogliono. Come se non condividessero più lo stesso sangue. La stessa vita. E non fossero più figli. Il personale sanitario si rifiuta ormai di telefonare per evitare gli insulti di quelli di “casa”, mentre chi è sopravvissuto, forse, avrebbe preferito morire.

Che l’irruzione di questo virus ci aiuti a nominare tutta l’ipocrisia che soffoca l’umano e il divino in noi, e la Pasqua di Gesù ci ridoni quella commistione di sangue, di vita e di destino con Lui che ci salva. Così sia.

 

 

  1. Parole tratte da questo reportage del New York Times
  2. C. Gnocchi, Cristo con gli alpini, Milano 2003, 67.
  3. C. Gnocchi, Pedagogia del dolore innocente, Milano 2016, 40.
  4. Idem, 41.
  5. C. Gnocchi, Cristo con gli alpini, 82.