Gerusalemme la casa delle genti

Gerusalemme la casa delle genti

I figli di lavoratori immigrati e di richiedenti asilo vivono nella Città Santa senza alcuna tutela. Ma parlano ebraico e si sentono parte di Israele. L’esperienza di accoglienza di Casa Rachele

da GERUSALEMME

Dalla Porta di Jaffa la collina scende veloce: sulla destra i quartieri alla moda della moderna Gerusalemme ebraica; poco più avanti la strada che conduce a Betlemme. Ma a Pinsker Street c’è un cancello che si apre su un mondo tutto suo: uno stuolo di bambini vivaci dai tratti asiatici e africani alle prese con lo scivolo, mentre qualcuno più grandicello prova (con fatica) a fare i compiti. Benvenuti a Casa Rachele, la casa di quanti sulla carta non dovrebbero esserci e invece sono una delle sfide più importanti oggi per la Chiesa di Gerusalemme.

Da poco più di un anno – in alcuni locali messi a disposizione dai frati cappuccini – il vicariato per i migranti del patriarcato latino ha aperto questa struttura che si prende cura dei figli degli immigrati e dei richiedenti asilo. Perché tocca anche Israele il grande fenomeno delle migrazioni, con numeri non indifferenti e una percentuale alta di cattolici. Solo i filippini, ad esempio, sono più di 50 mila; ma ci sono anche indiani e thailandesi, arrivati qui per lavorare come badanti, cuochi o giardinieri dopo che dagli anni Novanta la politica della separazione ha espulso dal mercato del lavoro israeliano decine di migliaia di palestinesi. E poi c’è l’Africa, fisicamente vicina, con circa 40 mila richiedenti asilo eritrei, etiopi e sudanesi, giunti dal Sinai e rimasti finora in un limbo in un Paese che – per l’incubo degli equilibri demografici – è molto restio a concedere permessi di residenza a lungo termine ai non ebrei.

È un mondo che cresce nella società israeliana, vive dentro le case degli israeliani, si sente dalla parte di Israele. Ma è guardato come una forza lavoro temporanea che non deve mettere radici. E il paradosso più duro è proprio quello sui bambini: la legge israeliana non ammette il diritto di famiglia per i lavoratori immigrati; in teoria, pochi mesi dopo la nascita, gli eventuali figli dovrebbero essere rimandati nel Paese d’origine. Gli indiani tendenzialmente lo fanno, molti altri no e così ecco allora questo stuolo di bambini che di fatto sono piccoli apolidi.

«Il problema di questo sistema è che crea irregolarità: vivono qui senza status giuridico con politici che anche qui ogni tanto gridano all’espulsione. Certo, di buono c’è il fatto che la scuola non lascia fuori nessuno, possono studiare. Per cui imparano l’ebraico, hanno amici israeliani, si sentono parte di questa società. Ma l’unica possibilità che hanno di regolarizzarsi è scegliere di compiere il servizio militare quando raggiungono l’età».

A raccontare la loro situazione è padre Rafic Nahra, sacerdote di origini libanesi cresciuto in Francia, da qualche mese a Gerusalemme alla guida del vicariato per i cattolici di lingua ebraica del patriarcato latino, che è anche vicario per le migrazioni. La sovrapposizione non è casuale: la piccola comunità di lingua ebraica (un migliaio di fedeli in tutto Israele) sta vivendo infatti come una vocazione specifica la vicinanza a questi migranti cristiani, che parlano ebraico, si sentono israeliani e sono il nuovo volto della Chiesa di Gerusalemme. È stato il suo predecessore, il gesuita padre David Neuhaus, ad accogliere questa sfida che in qualche modo si è imposta da sé. Non solo a Tel Aviv, dove da qualche anno ormai è attivo il Centro pastorale Nostra Signora Donna di Valore, punto di riferimento per i migranti nella zona sud della grande metropoli, dove si concentra il maggior numero dei richiedenti asilo. Anche a Gerusalemme Casa San Simeone e Anna, la sede del vicariato di espressione ebraica, era da tempo l’unico luogo dove le donne sole filippine che lavorano tutto il giorno potevano lasciare i propri figli. Ma lo spazio ormai là era troppo piccolo e così nel settembre 2016 ha aperto dunque Casa Rachele.

«È stato padre David a volere questo nome – racconta suor Claudia Livati, varesina, delle orsoline di San Carlo, in Terra Santa da tre anni che segue a tempo pieno questa realtà -. Casa Rachele come “la madre che piange i suoi figli”. Un modo per ricordare le grandi sofferenze di queste donne migranti». Sofferenze legate alla vita dura di chi ha uno status che resta in bilico. Per i richiedenti asilo africani, ad esempio, la situazione in Israele si fa ogni giorno più dura: il governo fa di tutto per scoraggiare la loro permanenza. Non può rimandarli in Paesi d’origine come l’Eritrea o il Sudan, dove ci sono regimi e persecuzioni; ma ha stipulato accordi con «Paesi africani terzi» (ufficialmente ignoti, ma che tutti sanno essere l’Uganda e il Ruanda) per «rimpatriarli» comunque: ora si parla di un ultimatum fissato per la fine di marzo.

«Nel frattempo – racconta padre Rafic – una nuova legge ha aumentato le trattenute dello Stato sui compensi per i piccoli lavoretti che svolgevano per vivere. Già prima era il 14% del compenso, ora hanno aggiunto un altro 20% che lo Stato metterebbe da parte per quando lasceranno il Paese. Avevano già pochi mezzi, perché senza uno status riconosciuto ottengono solo qualche impiego sottopagato. Adesso anche quei pochi soldi di compenso diminuiscono. La verità è che quanto facciamo noi qui sono piccole cose: i bisogni di queste persone sarebbero molto più grandi».

A rriva Imelda a prendere il suo bambino: viene dall’area di Manila, è qui ormai dal 2006; fa le pulizie nelle case, prima è stata anche una badante. «Ho tre figli nelle Filippine, con mio marito siamo separati – racconta -. Qui ho avuto quest’altro figlio con il mio compagno: se non ci fosse questo centro non saprei come fare». Jerusalem invece il destino l’ha scritto già nel nome: è venuta dall’Etiopia legalmente col fratello, lavorava al consolato. Poi, però, quando il lavoro è finito è rimasta comunque a Gerusalemme con suo marito: hanno tre figli piccoli, vive a Bakha, uno dei quartieri popolari, anche lei fa le pulizie nelle case. «La vita è dura, sempre con questa incertezza e i figli senza nemmeno un passaporto. Ma in Etiopia non possiamo tornare».

Queste fatiche lasciano il segno anche sui più piccoli. «Ho sempre lavorato coi bambini – racconta suor Claudia – ho fatto vent’anni tra gli scout e la scuola, ne ho visti tanti… ma le difficoltà di questi bambini non le ho trovate da nessuna parte. La maggior parte la mamma la vede pochissimo: crescono da soli, praticamente senza regole. Anche nella scuola non è tanto diverso: fino alla sesta sono in classi di 38 bambini dove la regola è che se vuoi studiare bene, se no pazienza… L’idea di un luogo dove si vive insieme, con tempi comuni e modalità di condivisione, è una cosa per loro difficile. Anche sedersi a tavola e mangiare insieme diventa una battaglia: sono abituati ad aprire il frigorifero come e quando vogliono. Nel gioco, all’inizio, dovevamo dare un pallone per ciascuno…».

Ci sono poi altre sfide più sottili ma non meno significative: «Vogliamo dare a questi ragazzi una vera identità cristiana, ma allo stesso tempo senza chiuderli in un ghetto – spiega padre Rafic -. Non è facile. Nella scuola pubblica acquisiscono un’identità legata al contesto ebraico. Cosa legittima: nessuno chiede agli israeliani di proporne a scuola una diversa. Però quando proviamo a leggere con loro la Bibbia da una prospettiva cristiana è difficile. Non diciamo loro che quanto ascoltano a scuola è sbagliato; spieghiamo che i loro insegnanti sono ebrei, che quella è la loro storia ma Gesù ci ha aiutato a capirla in maniera nuova. Col tempo, a poco a poco, le cose passano, ma è un lavoro lungo».

E Gerusalemme? Che cosa dice alla città la presenza di questi ragazzi? «Come tutte le cose inaspettate all’inizio spaventa – risponde il vicario della comunità cattolica di lingua ebraica -. Però chiamiamo loro migranti, ma noi chi siamo? Io, di origini libanesi, sono venuto a Gerusalemme dalla Francia; perché una donna filippina dovrebbe avere meno diritto di me a vivere qui? E chi è Israele stesso? Anche gli ebrei nel 1948 non sono venuti come migranti? Certo, per loro è stato il ritorno in Terra di Israele, ma è stata comunque un’immigrazione dagli Usa, dalla Russia, dalla Francia, dallo Yemen, dall’Iraq, dal Libano, dalla Siria… Siamo sicuri che per questi filippini, eritrei, sudanesi – migranti e richiedenti asilo – il discorso sia così diverso? E che la profezia su Gerusalemme come casa di preghiera per tutti i popoli oggi non ci dica qualcosa di importante anche su questo?».