La musica che non piace a Erdogan

In Turchia sei ragazzini sono stati arrestati dalla polizia perché ascoltavano canzoni in lingua curda. Ma non è un caso isolato: uno studio svela che la censura nei confronti della musica tradizionale della minoranza etnica è una prassi diffusa nel Paese
Tra le note segnate sull’agenda del presidente turco Erdogan – che proprio in questi giorni sta assistendo a un’altra fase del processo contro i presunti artefici del colpo di mano dello scorso luglio – ce ne sono alcune particolarmente dolenti. A non piacere affatto al governo turco sono infatti le ballate melanconiche e le narrative delle canzoni popolari curde, alle quali nell’ultimo periodo l’ufficio presidenziale ha dato prova di voler mettere un ulteriore freno. Risale solo a pochi giorni fa infatti la notizia dell’arresto di sei ragazzi quattordicenni, denunciati alla polizia turca proprio perché colpevoli di ascoltare canzoni in lingua curda e ballare la tipica danza «halay» durante l’intervallo in una scuola della provincia di Aydin, a ovest del Paese. Dopo aver sequestrato loro una memory card contente tracce musicali considerate pericolose, ai giovani è stato contestato di «fare propaganda terroristica», salvo poi dover rilasciare i presunti colpevoli per mancanza di prove. L’incidente non è però un caso isolato e la cronaca in questione riaccende i riflettori sul tema della censura musicale ai danni dei curdi. Non è la prima volta infatti che la Turchia mette un veto sulle manifestazioni artistiche della problematica minoranza etnica: anzi, per quasi un decennio – tra il 1982 e il 1991 – fu in vigore un vero e proprio divieto dell’uso della lingua indo-europea in ogni sua forma. Pertanto, cantare o anche solo possedere album contenenti musiche curde era considerato reato e, come tale, soggetto a pene severe. In ossequio a questa norma, compositori curdi come Nizamettin Ariç e Sivan Perwer, autore di canzoni dall’eco politica, vennero presi di mira, imprigionati o costretti a emigrare. Anche se oggi formalmente quel divieto non è più in vigore e sebbene il curdo sia la lingua madre di circa 20 milioni di cittadini turchi, la Costituzione del Paese continua a non riconoscerne la validità linguistica e ogni insegnamento in curdo è pertanto impossibile. Le ragioni della polemica turca con la minoranza curda ha d’altronde radici lontane. Il gruppo etnico, cui appartiene quasi il 20 per cento degli abitanti della Turchia e che è presente anche in Iran, Iraq e Siria, non può vantare un’unica realtà nazionale. Per ottenere maggiore autonomia dal governo, i curdi nella penisola anatolica hanno combattuto per trent’anni una guerra civile finché, otto anni fa, proprio Erdogan mostrò i primi segni di distensione presentando una serie di provvedimenti a favore della minoranza curda. I negoziati di pace tra le parti culminarono nel 2013 quando il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) concluse col governo una tregua. L’accordo però durò solo pochi mesi, trascorsi i quali sono ripresi gli scontri e la guerriglia urbana che ha comportato nuovi bombardamenti aerei da parte turca e attacchi suicidi per mano del PKK. Come se non bastasse, il tentato colpo di stato dello scorso 15 luglio ai danni del presidente Erdogan ha portato a una serie di arresti anche tra intellettuali e artisti, sospettati di fare riferimento a gruppi di opposizione tra cui ovviamente sono annoverati quelli curdi. A farne le spese sono dunque anche le forme artistiche tipiche della minoranza. Negli ultimi mesi, per esempio, l’operatore satellitare di proprietà statale Turksat ha staccato la spina a circa 20 canali radiotelevisivi considerati una «minaccia alla sicurezza nazionale» tra cui uno proprio dedicato alla trasmissione di canzoni popolari curde. Più analiticamente, nel suo annuale rapporto sulla censura artistica nel mondo, Freemuse ha contato 23 «serie violazioni» della libertà di espressione in Turchia che nel 2016 si colloca al secondo posto della classifica globale, subito dopo l’Iran. Tra i 31 casi di censura artistica da parte turca, ben 21 riguardano musicisti che sono stati imprigionati, processati o hanno subito minacce.
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