Contro la censura resta solo il pop (e Spotify)

Contro la censura resta solo il pop (e Spotify)

I servizi di musica in streaming come Spotify rimangono accessibili liberamente anche nei Paesi dove la censura colpisce stampa e tv. Ecco perché cinque giornalisti provenienti da altrettanti regimi anti democratici hanno messo in musica i loro articoli più scomodi e li hanno caricati online nella «Uncensored Playlist». «Almeno sulla radio clandestina – dicono in ritornello – non potete farci tacere»

 

Anche laddove la connessione a Internet e l’accesso ai social media arrancano sotto i veti di regimi anti democratici, chi sogna la libertà d’informazione e di stampa – diritto che si è celebrato giovedì in una Giornata mondiale – ha una via d’uscita: Spotify. Sì, perché il servizio più popolare di musica in streaming non offre soltanto una libreria di canzoni pressoché infinita agli appassionati ma è diventato anche un canale perfetto per trasmettere le notizie oscurate da radio, tv, giornali e blog indipendenti in molti Paesi del mondo. A differenza di questi media, infatti, i servizi di musica come Apple Music, Deezer e appunto Spotify non sono soggetti a censura.

Così cinque giornalisti provenienti da altrettanti Paesi hanno deciso di sfruttare questa possibilità e – insieme all’ong tedesca Reporters Without Borders, all’agenzia di comunicazione DDB Berlin e al compositore Lucas Mayer – hanno tradotto in musica quello che avevano da raccontare e hanno poi messo insieme quel materiale nella «Uncensored Playlist». La classifica è in tutto e per tutto simile a quelle che ogni utente può creare con le proprie tracce preferite con la differenza che la playlist in questione raggruppa dieci articoli precedentemente censurati che – una volta trasformati in canzoni pop – sono state caricati su siti di streaming musicale disponibili a tutti, tra cui Spotify.

A scoprire la scappatoia digitale e a selezionare le notizie da diffondere a ritmo di musica è stato in primis il giornalista Chang Ping, rimasto vittima della censura cinese sulla stampa fin dal 1998. Licenziato e costretto all’esilio per la sua attività indipendente, Ping oggi vive in Germania dove insegna anche all’università. Proprio parlando di censura in aula, a Ping è venuto in mente che c’era solo un canale che ancora sopravviveva ai numerosi divieti dei regimi repressivi su social media e motori di ricerca: i servizi di streaming musicale che continuano ad essere accessibili e disponibili gratuitamente ovunque nel mondo.

Così il reporter cinese ha chiesto di aiutarlo ad alcuni colleghi rappresentativi di altri Paesi senza libertà di stampa come Egitto, Thailandia, Uzbekistan e Vietnam. Ogni giornalista ha scelto due articoli per spiegare il suo lavoro e la situazione della sua terra d’origine; poi con l’aiuto del direttore musicale Mayer sono stati scritti i testi – sia in inglese sia nella lingua madre degli autori – e poi registrati ingaggiando musicisti locali: in questo modo le storie che erano state proibite non solo sono state diffuse in tutto il mondo ma sono arrivate anche alle orecchie dei cittadini ai quali erano state inizialmente negate.

«Il linguaggio è libertà stessa / Non lasciare che sia come un vecchio libro nello scaffale / In Cina i prigionieri politici sono incriminati per le loro parole» racconta Ping nel ritornello di «Speech of Freedom» accompagnato dalla base registrata sul rumore dei tasti della macchina da scrivere. Nelle sue canzoni, invece, il blogger vietnamita Người Buôn Gió – che nel 2010 ha vinto il prestigioso premio Hellman/Hammett per il coraggio di fronte alla persecuzione – ha riportato le domande scomode dei suoi articoli: «Cosa ha fatto Do Dang? Cosa è stato fatto a Du? Era tutta una bugia? Quando è morto Do Dang? / Anche se le leggi sono severe / era stato arrestato illegalmente / ha lasciato la prigione per un ospedale / dopo essere stato picchiato brutalmente».

 

 

Per l’Uzbekistan, la giornalista Galima Bukharbaeva – nominata tra le dieci giornaliste femminili più trasparenti al mondo – ha inciso «Dear Mr. President» e «A Businessman Died» che affrontano rispettivamente la storia della violenza della polizia, nascosta nei rapporti ufficiali e quella di un imprenditore locale indotto al riciclaggio da funzionari governativi. La preoccupante situazione dei media in Egitto – una delle più grandi prigioni per giornalisti al mondo – rientra invece nei testi di Basma Abdelaziz: «I laghi sono così blu / I prati vasti in primavera / È così bella da vedere / La nostra capitale in tv / Ma la realtà non è come sembra / I tempi sono minacciosi».

Ma a chiudere concettualmente la playlist è il collettivo indipendente thailandese noto col nome di Prachatai: «Cosa significa veramente essere liberi? Non è più permesso esserlo / Alcuni in Europa, la maggior parte in Asia / oppure all’estero ma comunque non sicuri e liberi / Articoli attaccati ogni giorno / Il governo ha chiesto che cessino le trasmissioni via YouTube / Se non si conformano, saranno deportati per essere perseguiti / Ma sulla radio clandestina / non potete farci tacere».