L’ultimo schiavo

L’ultimo schiavo

In un libro la struggente testimonianza di un africano che fu trasportato dall’ultima nave negriera negli Stati Uniti, quando il traffico di esseri umani era ormai illegale. Da uomo libero, passò la vita nel rimpianto della sua terra

 

Il suo nome africano era Oluale Kossula, la sua famiglia apparteneva agli Isha Yoruba del regno Takkoi. L’antropologa Zora Neale Hurston, afroamericana, lo incontra nel 1927. Kossula ha ormai 86 anni, ormai da oltre sessant’anni vive negli Stati Uniti e come cittadino americano ha assunto il nome di Cudjo Lewis. Kossula riveste un interesse particolare per lei: è l’ultimo ex schiavo nero africano ancora in vita. Era stato condotto in catene in America nel 1860, a bordo dell’ultima nave negriera, la Clotilda. Hurston è fortunata: Kossula-Cudjo è dotato di una memoria straordinaria e accetta di raccontarle la sua storia. Quella narrazione è all’origine di un libro che ha una storia altrettanto curiosa, intitolato Barracoon.

Il titolo è difficilmente traducibile: in inglese, indica quelle prigioni in cui i neri catturati venivano rinchiusi, in genere in prossimità della costa africana, in attesa di essere venduti ai trafficanti di uomini, caricati sulle navi e trasportati sull’altro lato dell’Atlantico. Malattie e condizioni igieniche pessime arrivavano a sterminare più della la metà del carico umano durante il viaggio, ma anche la fase precedente – la prigionia nei barracoon in attesa della partenza, che poteva durare mesi –falcidiava centinaia di migliaia di vite. La stima complessiva delle persone vittime della tratta atlantica nel periodo fra il Seicento e l’Ottocento è di 15 milioni. Molte regioni dell’Africa sono state sistematicamente svuotate dei loro abitanti più giovani, gli unici in grado di sopportare un viaggio così infernale, con qualche probabilità di restare vivi.

La testimonianza di Kossula, quasi unica nel suo genere, è rimasta inaccessibile fino allo scorso anno, quando HarperCollins l’ha finalmente pubblicata in inglese. E ora la casa editrice 66thand2nd la propone anche in italiano. Come mai questa lunga attesa? La vita dell’ultimo ex schiavo era poco interessante? Assolutamente no: il libro si legge d’un fiato. Il veto alla pubblicazione incontrato da Hurston riguarda una sua precisa scelta stilistica. L’anziano ex schiavo parlava un inglese molto africanizzato, distante anche dalle forme dialettali afroamericane. E l’autrice aveva scelto di rispettare il suo linguaggio. Alla richiesta degli editori di modificarlo per renderlo più comprensibile, Zora aveva opposto un rifiuto, relegando il testo in un limbo dal quale è uscito novant’anni dopo. Questa connotazione linguistica, come è prevedibile, si perde nella traduzione, ma in qualche parola anche la versione italiana tenta di conservare l’eco del linguaggio creolo di Kossula. Barracoon rappresenta dunque un doppio salvataggio di una storia dall’oblio: il primo è stato compiuto da Zora negli anni Trenta, quello attuale rende questa vicenda umana finalmente accessibile a un largo pubblico.

Kossula ha 19 anni quando il suo villaggio viene attaccato dai vicini e potenti nemici del Dahomey (oggi Benin). Gli uomini vengono trucidati; giovani, donne e bambini sono portati via come prigionieri. Diversi studiosi raccontano di questa prassi, preesistente alla tratta: i prigionieri di guerra diventavano manodopera servile domestica per i padroni. La tratta atlantica, tuttavia, solletica l’avidità di sovrani come quello del Dahomey, che diventa un eccellente fornitore di schiavi per gli europei. Se oggi questo aspetto è noto, non lo era altrettanto quando Hurston incontra Kossula. «In America i bianchi avevano tenuto la mia gente in schiavitù», scrive l’antropologa. «Ci avevano comprati e sfruttati, è vero. Ma il fatto inoppugnabile che mi si impresse nel cervello era un altro: era stata la mia gente a vendermi ai bianchi». La testimonianza di Cudjo Lewis faceva piazza pulita dell’autonarrazione tramandata fra la gente di colore: i bianchi rapivano lungo le coste i neri per renderli schiavi. Esisteva una complicità nera in questo traffico di esseri umani, come per secoli è esistito in alcune zone dell’Africa un fenomeno di schiavitù che coinvolgeva esclusivamente i neri.

Kossula ritrova la libertà dopo cinque anni e cinque mesi di vita da schiavo in America. Un giorno del 1865, un soldato yankee gli annuncia che è libero e può andare dove gli pare. Questo è uno dei passaggi più commoventi del libro: Lewis e i suoi compagni africani, trasportati con lui sulla nave negriera, sognano il ritorno nella terra dei loro antenati. Iniziano quindi a lavorare sodo per risparmiare, finché si rendono conto che i costi da sostenere sono tali da rendere il loro progetto irrealizzabile. Pertanto, comprano della terra e si rassegnano a essere americani, pur rimanendo africani nel loro cuore.

Dal racconto di Kossula emerge il dolore dello sradicamento – ancora vivo a distanza di decenni – il rimpianto per la propria comunità d’origine, la percezione della propria identità fondata sulla tradizione e la cultura africana, il senso di estraneità rispetto alla nuova patria. Quest’ultima ferita non trova giovamento nella relazione con gli altri fratelli neri, incontrati in America. Al contrario, Lewis è vittima di un duplice razzismo, non solo da parte dei bianchi ma anche degli altri neri, che additano i nuovi venuti come “selvaggi”. Alla fine della sua vita, lunga e dolorosa, Kossula è un uomo solo, un sopravvissuto, una figura tragica che nel suo ricordo incarna il dolore di milioni di uomini e donne strappati alla loro terra.

 

Zora Neale Hurston, Barracoon – L’ultimo schiavo. 66thand2nd, 16 euro (in libreria dal 14 febbraio)