Schiavi del mare

Schiavi del mare

Traffico di esseri umani e grave sfruttamento sono una piaga molto diffusa tra i pescatori di tutto il mondo. E il Covid-19 ha aggravato la situazione, come ricordato ieri dal Papa durante l’Angelus. La denuncia di padre Ciceri dell’Apostolato del mare, la fondazione cattolica al servizio dei marittimi

 

Il mare come tomba. La nave come luogo di schiavitù. Sembrerebbero lontani e archiviati i tempi della tratta degli schiavi. Ma le navi negriere oggi non navigano più dall’Africa verso le Americhe. E non trasportano più braccia africane da usare come manodopera nei campi. I luoghi della schiavitù contemporanea sono le navi stesse. Le rotte sono soprattutto quelle del Sud-est asiatico e del Pacifico. E i nuovi schiavi sono pescatori poverissimi costretti al lavoro forzato, sottoposti ad abusi e violenze, ricatti e minacce. Talvolta, come si vede in un video circolato recentemente sui social media – grazie al coraggio di un altro di questi pescatori – arrivano addirittura a essere uccisi: si tratta di un pescatore indonesiano, morto per le ferite e le torture subite su un peschereccio cinese, dove era costretto a lavorare come uno schiavo. La schiavitù del mare è una realtà vasta e drammatica.

«Le situazioni di tratta e sfruttamento sono piuttosto diffuse e frequenti e purtroppo rappresentano un elemento ricorrente nel settore della pesca», ammette padre Bruno Ciceri, missionario scalabriniano, che da circa trent’anni si occupa di questo tragico fenomeno. È stato prima 11 anni nelle Filippine e poi 12 a Taiwan dov’era cappellano del porto di Kaohsiung e coordinatore regionale per l’Asia; da dieci è responsabile dell’Apostolato del mare nell’ambito del Dica­stero per il servizio allo sviluppo umano integrale del Vaticano. Fondato esattamente cent’anni fa, questo particolare apostolato si rivolge a marittimi e pescatori di tutto il mondo e alle loro famiglie, grazie a una rete di circa trecento Stella Maris (di cui una trentina in Italia), luoghi di ascolto, aggregazione e supporto, dove operano cappellani e volontari.

«Spesso i pescatori vivono situazioni estremamente difficili, a volte disperate: situazioni di grande fragilità e vulnerabilità, se non addirittura di violenze e maltrattamenti. Senza diritti e senza tutele, lavorano moltissime ore al giorno per stipendi da fame. In molti contesti, assistiamo a una totale mancanza di regole e controlli. Ma anche, più banalmente, alla mancanza di condizioni igienico-sanitarie minime e di cibo sufficiente. E la pandemia di Covid-19 ha ulteriormente aggravato tutto questo». Una situazione che ieri anche Papa Francesco ha richiamato con un appello lanciato durante la preghiera dell’Angelus: «Moltt marittimi – si calcola circa 400.000 in tutto il mondo – sono bloccati sulle navi oltre i termini dei loro contratti e non possono tornare a casa», ha detto il Pontefice esortando i governi «a fare il possibile perché possano ritornare tra i loro cari».

Sono molti i lati oscuri dell’industria della pesca, ma anche di tutto il comparto del mare, che pure rappresenta un settore molto importante dell’economia mondiale. Basti pensare che sono ben 90 mila le navi presenti nei mari di tutto il pianeta. E che, durante il periodo di lockdown, il 90% delle merci è stato trasportato via mare da un capo all’altro del mondo, compresi molti dispositivi medico-sanitari che sono serviti per far fronte alla pandemia. Un settore, dunque, strategico, ma anche molto problematico sotto vari aspetti: danni ambientali e inquinamento, situazioni di illegalità e irregolarità nella pesca e di sostenibilità della filiera del pescato, ma anche la durezza del lavoro che a volte richiede sino a 100 ore settimanali. Per non parlare della pericolosità: nei primi tre mesi di quest’anno, sarebbero aumentati del 24%, rispetto allo stesso periodo del 2019, gli attacchi e i tentativi di rapina e sequestro da parte dei pirati. Il fenomeno che ha interessato a lungo il Golfo di Aden adesso si è spostato in altre aree marittime del pianeta. Infine, non si possono dimenticare fenomeni naturali estremi come uragani o tempeste che sono sempre all’ordine del giorno.

A tutto questo si sono aggiunte le numerose situazioni di «sfruttamento e abusi nei confronti dei pescatori, incluso un numero significativo di casi qualificabili come di vera e propria “tratta di esseri umani”». Lo ha denunciato in più occasioni l’Organizzazione internazionale per il lavoro (Oil), secondo la quale la «tratta di persone e il lavoro forzato nel settore della pesca sono una questione molto seria che merita l’attenzione e l’azione dei governi, della società civile, dei ricercatori e, non per ultimo, della stessa industria del pesce».

L’impatto sui pescatori viene definito «devastante» per quanto riguarda la salute fisica, il benessere mentale, la situazione economica e le relazioni sociali. Ma anche «distruttivo» rispetto alle famiglie e alle comunità di appartenenza. In alcuni casi sono coinvolti anche minorenni.

Il fenomeno, conferma padre Ciceri, «riguarda molti Paesi, specialmente asiatici: dalla Cambogia al Myanmar, dall’Indonesia alla Thailandia, dalla Cina al Giappone. Ma non sono mancati casi anche in Europa che hanno coinvolto, ad esempio, navi inglesi o irlandesi con a bordo lavoratori asiatici o africani. Molti pescatori, del resto, provengono da situazioni di grande povertà. Facilmente vengono adescati da agenti senza scrupoli che si addentrano in villaggi miseri e arretrati, dove anche il livello di istruzione è molto basso: qui li allettano con la prospettiva di un lavoro ben remunerato che permetterà loro di guadagnare molto di più rispetto alle attività agricole che svolgono al villaggio. Questi lavoratori, tuttavia, non si rendono assolutamente conto di quanto sia faticoso e pericoloso lavorare nell’ambito della pesca. Molti di loro firmano contratti e documenti senza sapere cosa c’è scritto. E quando sono in mezzo al mare è difficile controllare i pescherecci specialmente se sono al largo, e per i lavoratori diventa quasi impossibile mettersi in contatto con chiunque possa offrire aiuto».

I racconti di padre Ciceri fanno affiorare immagini che sembrano tratte direttamente dal celebre romanzo “Moby Dick”: immagini che si penserebbe appartengano a un passato lontanissimo o al genio letterario di Melville. «E invece – dice il missionario – ancora oggi i pescatori possono venire imbarcati anche per due o tre anni consecutivi, durante i quali rimangono nelle zone di pesca. Il ricambio dell’equipaggio può riguardare al massimo gli ufficiali, ma non i lavoratori, che spesso sono di nazionalità diverse, hanno difficoltà di comunicazione e talvolta contrasti. Anche perché sono costretti a una convivenza forzata, prolungata e molto faticosa su barche lunghe a malapena trenta metri».

Come se non bastasse, il Covid-19 ha contribuito ad appesantire ulteriormente la loro situazione: in molti casi, sono stati prolungati i contratti e dunque la permanenza a bordo. «Normalmente i marittimi hanno contratti di 9/10 mesi, che sono stati estesi a 13/14. Questo ha inciso sia sulla salute fisica che su quella psicologica, al punto che ci sono stati addirittura alcuni casi di suicidio». Quello che colpisce e inquieta è che ci si è preoccupati più del trasbordo del pesce – che è stato fatto attraverso navi-frigorifero – che delle condizioni dei lavoratori costretti a rimanere sui pescherecci. Come spesso accade, il guadagno viene prima dei diritti e della dignità delle persone.

«Sarebbe possibile prevenire la tratta di esseri umani e il grave sfruttamento lavorativo – sostiene l’Oil – se le compagnie si prendessero anche la responsabilità di rendere più trasparenti le loro filiere». D’altro canto, anche chi acquista dovrebbe farlo con una maggiore coscienza critica; il basso costo o il sotto-costo anche nel settore della pesca – e non solo in quello agricolo o in altri ambiti produttivi – presuppone sempre il grave sfruttamento dei lavoratori, ridotti in condizioni di vera e propria schiavitù.

Non va molto meglio per migliaia di marittimi che stanno subendo le ripercussioni dirette e indirette del Coronavirus. Moltissimi di loro, infatti, sono rimasti bloccati sulle navi da crociera o sui mercantili. Alcuni armatori o dirigenti senza scrupoli stanno usando il Coronavirus come pretesto per non rispettare i contratti, non pagare i lavoratori o non garantire i loro diritti. Padre Ciceri parla di circa 200/250 mila lavoratori costretti a bordo, perché non è stato possibile fare il cambio dell’equipaggio a causa della pandemia. E per quelli che sono riusciti a sbarcare si è imposta in maniera drammatica la questione dei rimpatri. «Ci sono stati molti casi di marittimi rimasti bloccati sulle navi nei porti, dopo che i passeggeri sono stati fatti scendere, proprio per la difficoltà dei rimpatri. Alcune compagnie, che hanno importanti presenze di lavoratori filippini o indiani, hanno dovuto dirottare le loro navi verso questi Paesi. Altri invece sono stati costretti a rimanere a bordo in Paesi stranieri, a causa delle frontiere chiuse o della cancellazione dei voli».

Succede anche in Italia, dove però le situazioni più critiche riguardano alcune navi abbandonate dagli armatori con l’equipaggio a bordo. «Alcuni casi sono stati risolti, altri no – conferma padre Ciceri -. Generalmente le Stella Maris intervengono per un sostegno ai marittimi abbandonati a loro stessi, a volte con il supporto delle Caritas per il rifornimento di cibo o altro. I nostri cappellani, inoltre, cercano di facilitare il rimpatrio, in collaborazione con il Sindacato internazionale dei marittimi, e raccogliendo fondi per i viaggi».

Anche per i cappellani, però, la situazione si è fatta più complicata a causa della pandemia di Covid-19. Solo da poco tempo, infatti, sono potuti rientrare nei porti, ma non salire a bordo delle navi. Di conseguenza è cresciuta l’interazione on line, ma questo non può sostituire il contatto personale, specialmente per persone che vivono a lungo isolate in mare, dove le comunicazioni – anche digitali – sono molto difficili.

Spesso questi lavoratori non sono neppure a conoscenza dei loro diritti e non si rendono conto della gravità dei trattamenti che subiscono. Ed è questo un punto su cui insistono molto non solo padre Ciceri, ma anche l’Oil. «Rendere queste persone consapevoli di essere vittime di traffico – sostiene l’organizzazione internazionale – permetterebbe loro di accedere a forme di assistenza e protezione -. Troppo spesso i pescatori trafficati non vengono identificati come tali nei Paesi di destinazione e rischiano addirittura di essere criminalizzati o per il loro coinvolgimento in attività di pesca illegale o come migranti irregolari. La tratta e lo sfruttamento hanno un impatto devastante anche sulle famiglie che spesso hanno bisogno di assistenza e supporto. Mentre le vittime necessitano di accompagnamento medico, legale, formativo e di inserimento lavorativo per potersi reintegrare ed evitare il rischio di essere ritrafficate». Si tratta di una sfida grande per la libertà e la dignità di ogni persona: una sfida che si impone oggi con urgenza sia sulla terraferma sia in mare.

 

CENT’ANNI DI APOSTOLATO DEL MARE

Dovevano tenersi il 4 ottobre a Glasgow le celebrazioni per il centenario di fondazione dell’Apostolato del mare, l’organizzazione cattolica al servizio dei marittimi, dei pescatori e delle loro famiglie in tutto il mondo. E invece, a causa del Coronavirus, si sono tenuti solo una Messa in streaming nella città scozzese, celebrata nella cattedrale di Sant’Andrea dall’arcivescovo di Glasgow, e alcuni webinar su diversi temi.
È proprio qui che, già nel 1893, si fecero i primi tentativi per avviare un’assistenza più strutturata alla gente di mare. Ma solo nel 1899 il gesuita Egger creò il primo ramo dell’Apostolato del mare nel porto di Clydeside. Più di 200 mila persone si iscrissero in meno di dieci anni. Solo il 4 ottobre 1920, tuttavia, l’Apostolato del mare venne rifondato nella città scozzese. «Da allora sono trascorsi cento anni – ha scritto il cardinale Peter Turkson nel messaggio per la Domenica del mare 2020 – e questo ministero è cresciuto ed è andato adattandosi alle continue trasformazioni dell’industria marittima, restando purtuttavia fedele alla missione iniziale di rivelare Cristo a coloro che navigano a bordo delle navi, e che lavorano in acque profonde, allo scopo di condurli a una maggiore conoscenza di Cristo e della sua Chiesa».