La discesa del Congo

La discesa del Congo

Si fa sempre più drammatica la situazione in Repubblica Democratica del Congo, dove si moltiplicano le violenze e i focolai di guerra. «Una situazione miserabile», denunciano i vescovi, che puntano il dito contro i politici che stanno facendo di tutto per «ipotecare la tenuta di elezioni libere e democratiche»

Un’ottantina di fosse comuni, quasi 3.500 morti, una ventina di villaggi completamente distrutti. Non solo. Sessanta parrocchie profanate e distrutte, 31 centri sanitari cattolici saccheggiati e 141 scuole diocesane assaltate e chiuse. Per non parlare di un numero enorme di sfollati interni – più di un milione – e di trentamila profughi che si sono riversati in Angola.

È la tragica contabilità – e solo per quanto riguarda le strutture della Chiesa – di quello che da nove mesi sta avvenendo nel Grande Kasai, regione diamantifera della Repubblica Democratica del Congo, dove si intrecciano questioni locali e tradizionali, scontri con l’esercito nazionale e ovviamente interessi economici.

Ma quello del Kasai non è che uno dei molteplici focolai di guerra che interessano varie regioni della R.D. Congo, come sottolineano con forza i vescovi del Paese in un durissimo documento pubblicato all’indomani della loro Assemblea plenaria che si è tenuta dal 19 al 23 giugno a Kinshasa.

«Il Paese va molto molto male – scrivono i vescovi – ma non bisogna cedere né alla paura né al fatalismo. Una minoranza di cittadini ha deciso di prendere in ostaggio la vita di milioni di congolesi. È inaccettabile. Dobbiamo riprendere in mano il nostro destino comune».

Situazione economica, sicurezza, situazione umanitaria e impasse politica: sono altrettanti ambiti in cui il Paese sta vivendo una crisi profonda. Ma anche corruzione, evasione fiscale, appropriazione indebita di fondi pubblici…Tutto ciò, sostengono i vescovi «ha raggiunto proporzioni inquietanti». Per non parlare della pesante svalutazione della moneta e della conseguente perdita di potere d’acquisto da parte della popolazione «le cui condizioni di vita sono divenute più che precarie», come testimoniano la diffusa malnutrizione e l’impossibilità di accedere ad acqua, elettricità, cure mediche e istruzione. Mentre i giovani, abbandonati a loro stessi e senza lavoro, sono facili prede di gruppi di ribelli o di banditi.

«L’insicurezza quasi generalizzata su tutto il territorio nazionale – fanno notare i vescovi – influisce direttamente sulla vita delle persone. Mina la dignità delle persone e il rispetto dei diritti umani».

Questo è dovuto alla presenza massiccia e incontrollata di numerosi gruppi ribelli nazionali e stranieri, ma anche alla diffusione indiscriminata di azioni criminali: sequestri e omicidi di bambini, rapimenti a scopo di estorsione, furti a mano armata, attacchi e saccheggi di strutture cattoliche. Ma anche scontri etnici e tra comunità, come quello tra batwa e bantu, e continue violenze come accade ormai da molto tempo nelle regioni del Kivu, Tanganyika e Ituri, legate spesso allo sfruttamento delle risorse minerarie. Al tutto si accompagnano pesanti violazioni dei diritti umani e restrizioni delle libertà fondamentali, come quella di espressione e di manifestazione.

Una «situazione miserabile» la definiscono i vescovi che individuano come causa principale la «non organizzazione delle elezioni in rispetto alla Costituzione del Paese».

Per questo puntano il dito conto la «mancanza di volontà politica» che fa sì che l’applicazione dell’Accordo a San Silvestro, faticosamente firmato da governo e opposizioni, proprio grazie all’opera di facilitazione della Chiesa, sia «insignificante». «Disprezzando la sofferenza della popolazione, gli attori politici moltiplicano le strategie per vuotarli del loro contenuto, ipotecando la tenuta di elezioni libere, democratiche e pacifiche». Tutte le altre soluzioni alternative messe in campo in questi mesi, rischiano solo di «accelerare l’implosione del Paese».

L’accordo di San Silvestro prevede la tenuta di elezioni provinciali, legislative e presidenziali, alle quali, tuttavia, il presidente Joseph Kabila non potrà presentarsi. L’impressione – confermata da molti fatti – è che nessuno (o quasi) voglia seriamente organizzarle. Certamente non Kabila, che pare molto più interessato a destabilizzare il Paese che a creare le condizioni per promuovere stabilità e sviluppo. Giocando una partita sporca – e non da solo – sulla pelle dei suoi concittadini.