AL DI LA’ DEL MEKONG
Quella chiamata che rende liberi

Quella chiamata che rende liberi

LA RIFLESSIONE
La chiamata di Dio può arrivare a “forzare” il cuore dell’uomo, non per violentarlo, ma per aprirlo ad un amore più grande, a un destino con Dio

Con questo scritto inauguriamo la rubrica biblica per l’anno 2018. In accordo con la redazione ho scelto il doppio tema della vocazione e della libertà. Quanto alla vocazione, non pensiamo solo alla vita religiosa, al sacerdozio o ad altre forme di consacrazione, ma alla vita di tutti, letta come chiamata di Dio. Circa la libertà invece, intendiamo il fatto che la chiamata di Dio è sempre un appello alla scelta del credente, che può corrispondervi o meno. E che, se vi aderisce, lo fa non perché forzato dalle circostanze o da un ordine esterno, ma perché vi ritrova il senso ultimo della vita. Fino alla paradossale esperienza vissuta dal profeta Geremia che, proprio perché “sedotto” da Dio, si ritrova in qualche modo “costretto”: avrebbe voluto evitare di pensare a Lui per la fatica che la missione comportava, eppure per quanto si sforzasse di contenere l’impeto divino, non ci riusciva: «nel mio cuore c’era un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9). La chiamata di Dio può arrivare a “forzare” il cuore dell’uomo, non per violentarlo, ma per aprirlo ad un amore più grande, a un destino con Dio. Il Suo amore si rivela a Geremia come un’effettiva limitazione della libertà, che però lo rende più libero.

Il testo biblico di riferimento per l’intero anno sarà la lettera di san Paolo apostolo ai Galati, dalla quale attingeremo a piene mani, non per farne un commento esegetico, ma per lasciarci sedurre da Dio come Geremia, o sorprendere dalla Grazia come Paolo.

All’inizio della lettera, l’apostolo si trova subito costretto a dar conto della propria vocazione. A scanso di equivoci si dichiara «apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre» (Gal 1,1). E poco dopo ribadisce che il Vangelo da lui annunziato ai Galati «non è modellato sull’uomo; infatti – continua – io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo».

Tutto il primo capitolo della lettera è attraversato da questo bisogno di fare chiarezza. Paolo non vuole essere frainteso quando parla di sé o della predicazione, e ribadisce che non è lui all’origine della sua chiamata. Non si tratta di un progetto personale, autoreferenziale. Di un selfie che riduce ogni panorama all’io, ma di un’evidenza, di una coscienza di sé, di una voce interiore, che lo introduce ad altro. È lo Spirito del Figlio – dirà più tardi – che grida «Abbà, Padre!» (4,6), e dichiara l’origine di ogni vita e di ogni chiamata. Dio Padre – scrive infatti Paolo – «mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia», per «rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi» (1,15-16). E racconta che, «subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi…» (1,15-17). Prevale la certezza di un’origine divina della vita e della chiamata, ben oltre qualsiasi sapienza o autorizzazione da parte degli uomini. Paolo rivendica una tale esperienza carismatica da non aver nemmeno bisogno del consenso di «coloro che erano apostoli prima di me». Non è il favore degli uomini che intende guadagnarsi, e non cerca di compiacerli. Anzi, «se ancora piacessi agli uomini – scrive – non sarei più servitore di Cristo! » (1,10). Ai Corinti dirà di essersi presentato presso di loro non «con sublimità di parola o di sapienza» umane, ma con la fierezza «di non sapere altro (…) se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1 Cor 2,1e ss.), scrollandosi di dosso qualsiasi riduzione della sapienza di Dio all’idolatrico consenso degli uomini. I credenti – gli fa eco San Giovanni – «non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,13). Non è né il consenso degli uomini né la natura, a generare in noi la fede, quanto – scrive la poetessa Donata Doni –«un gesto d’amore ignoto alla mia carne».

Nello stesso capitolo appare una seconda evidenza: il cambiamento che Paolo subisce. Quell’origine divina, «non da sangue, né da volere di carne», è in realtà una forza che cambia la vita di Paolo. «Avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi… accanito com’ero (…). Ma quando colui che mi scelse (…) e mi chiamò con la sua grazia (…)» (1,13-15). O ancora, dicono di lui: «colui che una volta ci perseguitava ora va annunziando la fede che un tempo voleva distruggere» (1,23). Il suo cambiamento documenta ancora una volta come egli sia diventato apostolo «per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre». La furia e la violenza umane, troppo umane, che apparivano come il segno della sua massima libertà, sono trasformate in forza di annuncio. Se da una parte quindi Dio interviene per porre un limite alla libertà, dall’altra proprio quel limite rende Paolo ancor più libero. Perché si tratta di un limite che assume la forma inedita di una direzione di vita: «guai a me se non predicassi il vangelo! » (1 Cor 9,26).