Sudafrica la sfida dell’unità

Sudafrica la sfida dell’unità

Verità e perdono come vie per la riconciliazione: il caso esemplare del Sudafrica, che ha fatto la scelta della giustizia riparativa per provare a superare l’apartheid e costruire un Paese nuovo, libero e multirazziale


A oltre vent’anni di distanza quello del Sudafrica resta certamente l’esempio più interessante e illuminante. Con tutte le contraddizioni e le inevitabili imperfezioni, il cammino di verità e riconciliazione promosso da Nelson Mandela e Desmond Tutu a supporto di un processo di giustizia riparativa è stato sicuramente il tentativo più avanzato di ricomporre un popolo e di ritrovare un’unità, ri-mettendo insieme vittime e carnefici. Un processo di memoria – e di guarigione della memoria – che ha provato a far luce su un passato terribile di discriminazioni razziali, violenze e annichilimento dell’altro. L’obiettivo, come scriveva Nadine Gordimer, Premio Nobel per la letteratura, era di «raggiungere il massimo della verità possibile perché è la sola garanzia di creare la migliore democrazia per il futuro».

Non solo verità, tuttavia. Quello sperimentato in Sudafrica è stato anche il tentativo di costruire un futuro di convivenza pacifica, di rispetto dei diritti umani e della dignità di ogni persona, mettendo al centro la comunità, affinché ciascuno – vittima o aggressore – potesse ritrovare il proprio posto e la propria responsabilità, ammettendo le colpe, ma anche sperimentando il dono liberatorio del perdono. «Forgive, but not forget», aveva ripetuto all’infinito Nelson Mandela, primo presidente del Sudafrica libero nel 1994: «Perdonare, ma non dimenticare». Perché, insisteva Desmond Tutu, arcivescovo anglicano e presidente della Commissione per la verità e la riconciliazione: «Non esiste avvenire senza perdono. Ma per perdonare bisogna sapere ciò che è accaduto».

Questo processo di giustizia riparativa non è stato senza difficoltà: ha “sacrificato” in un certo senso il desiderio di molti di una giustizia penale punitiva. In sostanza, il sistema concedeva l’amnistia a tutti coloro che pubblicamente ammettevano le proprie colpe. Che, in molti casi, erano assolutamente terribili. Sono stati, infatti, anni di omicidi, torture, sparizioni, abusi, imprigionamenti arbitrari che hanno lasciato lutti, ferite, sofferenze e traumi da lenire e curare. Ma anche odio e sete di giustizia – o di vendetta – da gestire.

Si trattava di un contesto potenzialmente esplosivo, in cui tuttavia è prevalso un bisogno su tutti: quello della riconciliazione. E non solo perché questo processo è stato accompagnato dalla statura morale di due figure grandissime come Mandela e Tutu, ma anche perché ha affondato le sue radici di senso più profondo in un patrimonio di umanità che l’apartheid non era riuscito a prosciugare: quello dell’ubuntu. Ovvero il senso di comunità, di appartenenza, di reciproca solidarietà e di mutuo soccorso insito nelle culture e nella filosofia africane. «Io sono, perché noi siamo»: è questo, in estrema sintesi, il cuore dell’ubuntu. Dice che ciascuno si definisce come persona solo nella rete di relazioni, di prossimità e di interdipendenza che la legano agli altri e con cui può costruire un’esperienza forte di appartenenza. «Perché è solo attraverso la comunità che è possibile restituire dignità alle vittime – ci raccontava Mongezi Mngese, che per cinque anni ha lavorato nei comitati della Commissione per la verità e riconciliazione, girando tutto il Sudafrica -; ed è solo grazie alla comunità che è possibile reinserire nella società anche i colpevoli, consapevoli delle loro responsabilità e capaci di assumerle. In Su-dafrica dovevamo imparare a vivere insieme, creando qualcosa di nuovo: dovevamo dare una speranza per il futuro, sapendo chiaramente da dove venivamo. Dovevamo cercare di capire che cosa significa costruire un nuovo sistema democratico, fondato su una cultura condivisa dei diritti umani e su forme nonviolente di lotta per una società più giusta, equa e solidale».

La professoressa Claudia Mazzucato dell’Università Cattolica di Milano, affiliata al Center for Restorative Justice & Peacemaking dell’Università del Minnesota, ha dedicato diverse pubblicazioni al caso-Sudafrica, contribuendo tra l’altro al volume “Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione” (Mulino 2017). Nel logo della Corte costituzionale, fa notare, «non c’è né la bilancia, né la spada, ma un albero sotto il quale si raccolgono figure di esseri umani bianchi e neri intrecciati tra di loro. La sagoma dell’uno nasce grazie allo spazio lasciato dalla sagoma del fratello». E rammenta come nell’ultima pagina dell’autobiografia di Mandela si trovi un grande insegnamento di fraternità: «La fraternità più scandalosa è la fraternità con il colpevole». Perché lo scopo, sosteneva Mandela, è che nessuno sia più schiavo: il nero oppresso e abbrutito, il bianco vittima del suo odio e del suo pregiudizio, entrambi privati della loro umanità.

Mongezi Mngese ribadiva lo stesso concetto, utilizzando un proverbio africano: «Di una zebra non si può uccidere solo la parte bianca». «Nell’unica terra per tutti – commenta Mazzucato – questi popoli diversi hanno risposto al sistema della segregazione razziale, facendo una giustizia dell’unità e della riconciliazione per vincere l’apartheid che era il crimine della divisione».

Questa sfida è quanto mai attuale anche nel Sudafrica di oggi (e non solo). Nel “Paese arcobaleno”, dove sono riconosciute undici lingue ufficiali, quello della verità e della riconciliazione non è un processo che si è interrotto con la fine dei lavori della Commissione, ma in qualche modo rappresenta una grande sfida anche per il futuro. Il Sudafrica, infatti, vive nuove forme di apartheid, economiche più che razziali, di mancanza di opportunità e di lavoro, più che ideologiche: un Paese che ha una Costituzione avanzatissima, ma dove gran parte della popolazione nera continua a vivere in estrema povertà, discriminata e marginalizzata; un Paese che ha ancora un enorme bisogno di fare memoria, per trasmettere anche ai più giovani, che non hanno vissuto l’apartheid, la consapevolezza della loro storia e la necessità di continuare a costruire insieme una nazione libera, multirazziale e riconciliata. Una bella lezione anche per la nostra parte di mondo.