Io, soldato a Gaza che ho rifiutato la guerra

Io, soldato a Gaza che ho rifiutato la guerra

La testimonianza di Chen Alon, ex maggiore dell’esercito israeliano che ha scelto di guardare anche alle ferite di chi sta dall’altra parte: «Il dolore che proviamo è lo stesso, sia per i bambini israeliani sia per i bambini palestinesi»

La guerra che insanguina Gaza e Israele non smette di scuotere le coscienze. Pubblichiamo la testimonianza personale che Chen Alon – ex ufficiale dell’esercito israeliano, oggi impegnato insieme ad ex miliziani palestinesi nell’associazione Combatants for Peace – ha offerto in occasione dell’incontro “Oltre il muro. Voci di pace dal cuore della guerra” tenuto al Centro Pime di Milano lo scorso 29 novembre.

Stiamo vivendo uno dei momenti più orribili della nostra storia. Conosco tante persone colpite nel massacro del 7 ottobre, l’attacco barbaro di Hamas contro il Sud di Israele. Alcune sono state uccise, alcuni amici hanno membri della propria famiglia tenuti in ostaggio a Gaza: siamo accanto a loro nel chiedere il rilascio immediato di tutti.

Come membro di Combatants for Peace ho però un cuore e una mente bi-nazionali. Per questo invoco anche il cessate il fuoco, la fine del massacro di bambini e civili a Gaza. Il dolore che proviamo è lo stesso, sia per i bambini israeliani sia per i bambini palestinesi di Gaza.

Sono stato un soldato combattente: ero un maggiore dell’esercito israeliano. Sono cresciuto in una famiglia di Tel Aviv in Israele. I miei nonni scamparono all’Olocausto: partirono dalla Polonia subito prima e furono gli unici delle loro famiglie a sopravvivere. Mio padre ha combattuto le guerre del 1967 e del 1973: i miei nonni gli avevano trasmesso senza troppe parole l’idea che Israele è l’unico rifugio per il popolo ebraico. E che l’unica strada per proteggere gli ebrei da un nuovo massacro era l’esercito israeliano. Così anch’io ho svolto il mio servizio militare obbligatorio, sono diventato un ufficiale dell’esercito. E poi sono rimasto undici anni tra i riservisti. Ho conosciuto ogni città, villaggio e campo di rifugiati tra il 1987 e il 2002, quando come maggiore dell’esercito mi sono rifiutato di continuare. Sono finito anche in carcere per questo. L’ho fatto perché ho capito che servire l’occupazione e l’apartheid in realtà distrugge lo Stato di Israele, demolisce quel rifugio e quello Stato democratico che i miei nonni avevano sognato.

Sono entrato nell’esercito all’inizio della prima intifada; ma la mia idea di stare su un carro armato a difendere Israele da un’invasione araba non è stato ciò che realmente mi sono ritrovato a fare. Ho svolto arresti nel cuore della notte, imposizioni di coprifuoco: alcune di queste azioni le ho anche guidate come comandante. Mi ricordo in particolare una notte: arrestammo un ragazzo in una casa perché l’intelligence ci aveva detto che aveva lanciato delle molotov contro una nostra jeep che aveva preso fuoco. Avrà avuto 9 o 10 anni. Guardando indietro oggi mi rendo conto che è illegale arrestare i bambini. Ma quella notte l’ho fatto. Avevo ricevuto un ordine e pensavo che questo facesse parte del mio compito di proteggere Israele.

Sono state le domande su centinaia di azioni come questa a portarmi, poco alla volta, a cambiare prospettiva. In particolare hanno pesato due esperienze: la prima è stata la nascita di mia figlia. Ha cambiato il mio cuore. Non riuscivo più a guardare ai bambini palestinesi come “piccoli terroristi” o come bambini che lo sarebbero diventati un giorno. Tenendo in braccio mia figlia, non potevo più mentire a me stesso. Non riuscivo più a dirmi che quanto stavo facendo era difendere Israele. Stavo solo minacciando e disumanizzando chi sta dall’altra parte. E traumatizzando generazioni e generazioni di bambini e giovani palestinesi.
Ricordo anche una giornata particolare: era il 2001 all’inizio della seconda intifada, avevamo bloccato un villaggio. La dottrina del nostro esercito in quel momento era bloccare ogni villaggio, nessuno doveva muoversi, ai palestinesi occorreva un permesso particolare per andare da un posto all’altro. Avevamo fermato un taxi con a bordo sei bambini palestinesi accompagnati da un adulto che dovevano andare in un ospedale di Betlemme. Mentre ero lì che discutevo con l’autista, ho ricevuto una telefonata di mia moglie. Mi diceva: «Non riesco ad andare a prendere nostra figlia all’asilo, chiedi a tua madre di andarci». Ho chiamato mia madre e lei mi risposto: «Certo, ci vado io, tu stai facendo il tuo dovere nell’esercito…». Finita quella conversazione sono tornato al taxi, ma non abbiamo permesso ai bambini palestinesi di andare all’ospedale, perché non avevano il permesso. Quel giorno ho capito che stavo recitando due personaggi. Da una parte il padre premuroso, umano, bravo marito e figlio amorevole per mia madre. Dall’altra un soldato della riserva che dice: «No, questi bambini non hanno il permesso». Così ho deciso di non andare avanti. Ed è iniziato il nostro movimento di militari israeliani che rifiutano l’occupazione e l’apartheid.

Quando venni scarcerato era il momento in cui Ariel Sharon iniziava a parlare del ritiro da Gaza. Qualcuno ci disse: c’è un movimento speculare al vostro dalla parte dei palestinesi. Persone che hanno preso parte alla lotta armata e per questo sono state anche incarcerate; anche loro si oppongono agli attacchi suicidi e a ogni atto di violenza che colpisce persone innocenti. Insieme abbiamo fondato Combatants for Peace. Non è stato facile: eravamo ancora nella seconda intifada. Abbiamo scelto di deporre le armi per iniziare un percorso che è fatto di due strade: da una parte il dialogo, la riconciliazione, la fiducia tra di noi, il riconoscimento dell’umanità dell’altro. Dall’altra, però, anche la costruzione di una comunità bi-nazionale, fondata sulla lotta non violenta contro l’occupazione e l’apartheid.

Oggi ci ritroviamo in un momento molto difficile di questo percorso. Quando questa nuova ondata di violenza è iniziata, siamo rimasti tutti impietriti dall’attacco barbaro, dal massacro, dagli omicidi; e subito dopo anche dalla rappresaglia di Israele a Gaza, così brutale. Dopo diciott’anni, però, mi sento comunque di dire che noi stiamo incarnando una visione del futuro. Siamo fermi nella convinzione che la violenza porta solo ulteriore violenza e nella fiducia tra di noi.
Lo so: in questo momento siamo nell’occhio del ciclone, ma passerà. Lo vediamo bene che molti israeliani e palestinesi hanno perso la speranza e la fiducia. La pace sembra irraggiungibile. Diritti umani, indipendenza, riconciliazione: la gente oggi non ci crede più. Ripete solo: uccideteli, uccideteli, uccideteli… Entrambe le nostre società ci stanno sfidando. Ci dicono: lo vedete che loro sono dei mostri? Vedete che cosa ci stanno facendo, questi animali? E invece quanto umani, quanto nel giusto siamo noi?

Lo dicono da entrambe le parti. Con lo stesso tipo di narrazione, come in uno specchio. Ma noi sappiamo che non c’è altra strada che aiutare a ritrovare l’umanità dell’altro. Che poi, alla fine, significa ritrovare l’umanità di noi stessi. Con il dialogo, con la riconciliazione, con il riconoscimento del dolore e dei traumi altrui. Ma, insieme, dobbiamo anche riconoscere il contesto che ha portato all’attacco di Hamas. Non si tratta di giustificare: noi non giustifichiamo nessuna uccisione. Ma dobbiamo capire che cosa porta le persone a tanta violenza. Ad esempio: sedici anni di assedio e blocco di Gaza. L’abbiamo trasformata nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, minando i diritti umani al punto da arrivare persino a contare le calorie, per garantire solo il minimo indispensabile alla gente che vive lì.

Noi vogliamo essere pronti per quando la tempesta finirà. Combatants for Peace è una comunità di israeliani e palestinesi che vogliono esserci quando la pace, la giustizia e la riconciliazione verranno. Per essere il seme di una comunità più grande, capace di ricostruirsi, riabilitarsi e rimettersi in piedi insieme.


Al Centro Pime, religioni per la pace

Dalla Terra Santa al Myanmar, dall’Ucraina al Sudan: di fronte ai tanti conflitti in corso nel mondo, il Centro Pime di Milano ha sentito l’esigenza di proporre un momento in cui esponenti di diverse fedi religiose possano incontrarsi e pregare insieme per la pace. È nato così l’evento che si terrà martedì 16 gennaio, alle ore 18, nel giardino della sede di via Monte Rosa 81 (o, in caso di maltempo, sotto il portico). Un incontro che vuole essere all’insegna dell’amicizia e della vicinanza umana, in solidarietà con chiunque stia soffrendo le conseguenze della guerra. A intervenire sono stati invitati amici (non rappresentanti ufficiali) di varie fedi religiose: buddhisti e musulmani, ebrei e induisti, cristiani di diverse confessioni. Ognuno, a partire dal proprio credo, proporrà una breve preghiera o meditazione ispirata alla pace.
L’evento è aperto a tutti, con un’attenzione particolare alle famiglie con bambini: per i più piccoli sono previste alcune attività specifiche proposte dagli educatori del Pime, mentre tutti insieme si vivranno alcuni gesti dal forte significato simbolico.