La mia vita per le donne del Bangladesh

La mia vita per le donne del Bangladesh

Quando arrivò in missione, 55 anni fa, il Paese non esisteva ancora. Da allora suor Filomena Alicandro ha lottato per l’emancipazione femminile insegnando il lavoro di sarta a generazioni di ragazze. Cristiane e non solo

 

Quando suor Filomena arrivò in missione, cinquantacinque anni fa, il Bangladesh non esisteva ancora. «Questo allora era il Pakistan orientale e qui c’erano tanta povertà e arretratezza. I bambini dei villaggi rurali non andavano a scuola, le donne in casa erano trattate come serve e nella società non contavano niente». Fu proprio la condizione femminile a colpire fin da subito la giovane suora originaria di Marina di Minturno (Latina), che – anche se allora non ne era consapevole – ne avrebbe fatto il fulcro di un’intera, lunghissima, vita missionaria.

«Da ragazza avevo imparato a cucire e ricamare, così pensai di usare quella mia abilità per provare a migliorare la vita delle ragazze», ricorda la religiosa che oggi, a 84 anni, è la decana delle Missionarie dell’Immacolata in Bangladesh. E, nonostante il bastone che la aiuta a muoversi nei suoi sopralluoghi quotidiani al Women and Development Center di Gopalpur, la cui sartoria in oltre trent’anni ha garantito un lavoro e un reddito a migliaia di donne, non ha perso la sua verve e la passione per l’annuncio.

Suor Filomena Alicandro, per la verità, è per tanti versi una pioniera. Per dieci anni, ad esempio, ha vissuto in una casa di fango, «per condividere la povertà della gente», finché un tentativo di intrusione da parte di estranei attraverso un buco in una parete la convinse a trasferirsi in un’abitazione in muratura… Appena arrivata in Bangladesh, d’altra parte, non aveva frequentato un corso per studiare la lingua locale, come fanno le sue consorelle oggi: «A quei tempi non c’era una scuola! Il bengalese l’ho imparato da sola, con l’aiuto delle bambine dell’ostello di Bonpara», racconta parlando della sua primissima destinazione.

Da lì si era spostata a Dhanjuri, nel distretto di Dinajpur nel Nord del Paese, dove sorgeva il lebbrosario gestito dal Pime, per poi essere trasferita a Boldipukur (nel vicino distretto di Rangpur), nella parrocchia di Cristo Sal­vatore. «Lì, con una motoretta raggiungevo i villaggi più remoti per fare visita alle famiglie e insegnare a cucire alle donne. Pian piano, alcune di loro riuscivano ad aprire semplici botteghe sartoriali domestiche, rendendosi più indipendenti dai mariti e guadagnando maggior rispetto e considerazione in casa». Una piccola rivoluzione, che poi ha lasciato il segno. «E infatti, quando di recente sono tornata in quella zona dopo tanti anni, sono stata accolta con grande affetto ed entusiasmo: mi hanno fatto una vera festa!».

Del periodo in cui viveva a Boldipukur, tuttavia, suor Filomena conserva anche i ricordi più traumatici della sua vita missionaria. Era il 1971 e l’aspirazione del Bangladesh a ottenere l’indipendenza dal Pakistan portò allo scoppio di un conflitto sanguinoso che in nove mesi causò tre milioni di morti e dieci milioni di rifugiati in India, per non parlare delle centinaia di migliaia di donne violentate e trattate come “bottino di guerra”.

«Fu un’esperienza terribile», ricorda le religiosa. «C’era tanta paura e la gente si rivolgeva a noi suore e preti in cerca di aiuto. Molti indù ci chiedevano una croce da appendere al collo perché i cristiani, che non erano apertamente schierati con le fazioni in conflitto, erano sottoposti a meno vessazioni. Per mesi in tanti sono venuti da noi a passare la notte perché in una struttura in muratura si sentivano più sicuri in caso di bombardamenti… Ma tanto sicuri non eravamo, e infatti dormivamo sotto i tavoli per avere un minimo di riparo».

In quel periodo si usciva poco di casa: i pericoli erano troppi. Ma la suora di Latina non voleva rinunciare a visitare le sue allieve nei villaggi. Tanto che qualcuno cominciò a nutrire dei sospetti sulle sue attività: «I militari pensarono che io sostenessi i partigiani bengalesi pro indipendenza e vennero a casa nostra per arrestarmi! Per fortuna la gente del posto si precipitò lì e riuscì a convincerli che erano completamente fuori strada. Alla fine se ne andarono e mi lasciarono in pace».

La stessa intraprendenza ha caratterizzato l’impegno di suor Filomena nei decenni trascorsi nella missione di Gopalpur, «una zona presso Muladuli dove vivono i paharia, uno dei gruppi etnici più poveri ed emarginati del Bangladesh». Ci arrivò nel 1979, «quando non c’era praticamente niente: non esisteva nemmeno la parrocchia. Nei villaggi la situazione delle famiglie era di grande arretratezza. Così, a fianco della quotidiana opera di visita nelle case, di accompagnamento umano e di evangelizzazione, cominciammo un difficile lavoro di sensibilizzazione per convincere i genitori a mandare i figli a scuola. Anche in quel contesto, poi, particolarmente critica era la condizione femminile: le donne cristiane, per guadagnare qualcosa, lavoravano come domestiche nelle case dei musulmani, ma spesso venivano sottoposte ad abusi. Nacque così l’idea di creare un Centro dove le ragazze potessero imparare a cucire e ricamare, per poi essere impiegate come sarte nella stessa struttura».

Grazie al supporto di padre Angelo Canton del Pime, nel 1989 aprì i battenti il Women and Development Center, dove ben presto cominciarono a lavorare settanta donne, sia bengalesi sia paharia. Un dettaglio non di poco conto, visto che «a quei tempi tra i due gruppi c’erano forte diffidenza e assoluta separazione sociale». Così, oltre a favorire l’indipendenza economica delle madri, con benefici in termini di emancipazione e di consapevolezza dei propri diritti, le missionarie in questi decenni hanno portato avanti un cambiamento sul fronte della convivenza e del reciproco rispetto tra gruppi etnici e religiosi. Tra le iniziative di suor Alicandro nella parrocchia, che fa riferimento alla diocesi di Rajshahi e conta oltre 1.500 cattolici, c’è anche un’associazione che promuove il comune impegno femminile e l’educazione al risparmio.

Grazie al lavoro presso il Centro, dove si producono divise scolastiche e paramenti sacri, biancheria e ogni tipo di tessuti ricamati, le sarte guadagnano – a seconda degli ordini – tra i 3.000 e i 5.000 taka al mese: un contributo modesto ma significativo al bilancio familiare. Per non parlare delle soddisfazioni professionali che non sono rare: come in occasione della visita di Papa Francesco in Bangladesh nel dicembre del 2017, quando le donne di Gopalpur, insieme a quelle del Centro di Bonpara gestito a sua volta dalle Missionarie dell’Immacolata, realizzarono le casule indossate dal Pontefice e dai sacerdoti che celebrarono la Messa nel parco Suhrawardy Udyan di Dhaka con centomila fedeli. «Il Santo Padre ci scrisse personalmente una lettera per ringraziarci», racconta orgogliosa la missionaria dell’Immacolata. Che, dopo sessant’anni di professione religiosa e una vita intera in Bangladesh, alla gente di questo Paese è legata da un affetto profondo.

«Oltre a insegnare ai bambini delle elementari e a fare catechismo, ogni giorno facevo il giro del villaggio e in questo modo sono entrata a poco a poco nella quotidianità della gente, fino a conoscere tre o quattro generazioni di cristiani e non solo», racconta.
«La testimonianza evangelica? Non si fa tanto con le parole ma con la vita, con la disponibilità verso i bisogni delle persone, con la condivisione di gioie e dolori: così siamo segni dell’amore di Dio per tutti».

Ma le suore operano anche conversioni? «Se avviene, è grazie all’esempio che cerchiamo di dare. Ricordo che, andando a visitare il villaggio qui vicino, incontravo spesso due vecchietti che mi dicevano: “Ecco, tra queste donne non c’è falsità!”. Poi capitava, quando ero seduta da sola vicino alla mia casupola, che qualcuno venisse a chiedermi che cosa ci facessi lì, se non fossi sposata, fino a quando sarei rimasta… E allora io, spiegando che avevo dato la mia vita al Signore attraverso il servizio ai più poveri, parlavo di Gesù».

La suora italiana non nega di avere incontrato – e di incontrare ancora – forme di estremismo di matrice islamica: «C’è chi deride la nostra fede, chi mi dice che non andrò in Paradiso perché non ho figli da offrire ad Allah… Ma naturalmente non è sempre così: ho anche tanti amici musulmani».

Guardando al Bangladesh di oggi, suor Filomena riscontra «tanti passi in avanti sul fronte della modernizzazione, anche se restano gravi problemi, a cominciare dallo sfruttamento del lavoro, sia nei campi sia nelle fabbriche tessili spuntate come funghi nella zona di Dhaka e che attirano molti dei nostri giovani». In tema di diritti femminili «c’è maggiore consapevolezza, oggi le ragazze vanno a scuola, eppure le donne continuano a sopportare ingiustizie e abusi, in particolare nelle famiglie musulmane. Non possiamo smettere di impegnarci su questo fronte».

Resta combattiva l’anziana religiosa, anche se il fisico oggi è più affaticato «e quindi – ammette – le mie giornate sono più tranquille di una volta: trovo anche il tempo di preparare conserve e qualche volta di cucinare all’italiana!». E quando le chiedo se, nella sua vita missionaria, non si sia mai sentita sola, o non le sia mancata una famiglia tutta sua, risponde con naturalezza: «Ma sì, certo, fa parte della vita, no? Ma quando c’è la vocazione si supera tutto, i disagi fisici, le differenze culturali che a volte ci pesano, il cibo così diverso da quello a cui siamo abituati… e prove dolorose, come la morte dei parenti: io ho perso la mamma, il papà e una sorella mentre ero qui, lontana da casa. È stata dura, sì, ma sono sempre stata felice di essere una missionaria».