L’invasione? Non è qui

L’invasione? Non è qui

Le persone in fuga da conflitti e violenze sono in aumento. Ma l’impatto più forte della crisi è nel Sud del mondo, così come l’accoglienza. La testimonianza dell’Alto Commissario Onu per i Rifugiati.

Riportiamo ampi stralci del discorso tenuto da Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, in occasione della prima Martini Lecture tenutasi il 22 marzo all’Università Bicocca di Milano e dedicata al tema “Esodi forzati oggi: una questione di umanità”.

i parla, oggi, e sempre più spesso, di “crisi” dei rifugiati. È vero che il numero di persone sradicate dalla propria terra da conflitti, violenze e persecuzioni è in crescita. Il numero delle persone costrette a fuggire, fuori e dentro i confini dei propri Paesi, ha superato per la prima volta i 70 milioni, di cui circa 25 milioni possono essere considerati rifugiati a tutti gli effetti, avendo traversato una frontiera, e a volte diverse frontiere, in cerca di quella che chiamiamo protezione internazionale – un numero raddoppiato rispetto a qualche anno fa. Questi movimenti hanno avuto conseguenze globali, certo, ma l’impatto più profondo e immediato si è prodotto sui Paesi in via di sviluppo, dove sono accolti più di otto rifugiati su dieci, o su quegli Stati fragilissimi che sono teatro dei conflitti che provocano lo sfollamento di decine di milioni di persone all’interno dei propri confini.

Invece la percezione prevalente è che la “crisi” dei rifugiati affligga soprattutto i Paesi ricchi. È una percezione alimentata dalla retorica politica, quella – per intenderci – dell’“invasione”, che poggia su un nodo complesso di paure abilmente manipolate e pregiudizi coltivati ad arte e che (come abbiamo visto in Nuova Zelanda) può giungere a conseguenze terrificanti. La realtà è ben diversa. È nei Paesi resi fragili da guerre e violenza, nelle comunità di frontiera, nelle periferie e spesso nelle zone più povere dei Paesi e delle regioni prossimi alle aree di conflitto che la “crisi” è acuta e drammatica. Prendiamo la situazione del Bangladesh, dove negli ultimi quattro mesi del 2017 arrivarono oltre 650.000 persone di etnia rohingya dal Myanmar: traumatizzate, esauste e disperate, in fuga da una brutale operazione militare durante la quale migliaia di membri della loro comunità erano stati uccisi e le loro case e villaggi distrutti.

Visitai la regione di Cox’s Bazar – una delle più povere del Bangladesh – poche settimane dopo l’inizio della crisi. I rifugiati erano ammassati a migliaia in alloggi improvvisati ai bordi delle strade, nelle foreste, a ridosso delle colline, mescolati ai loro compatrioti che già si trovavano in quella regione, frutto di esodi precedenti: quasi un milione di persone in una delle zone geograficamente ed economicamente più svantaggiate del Paese.

In mezzo a quella terribile, disperata miseria, nel caos dell’emergenza, la popolazione locale si era organizzata per aiutare i rifugiati: un’operazione umanitaria disordinata e spontanea, ma efficace e addirittura indispensabile a salvare vite in pericolo e dare un po’ di conforto; mentre il governo del Bangladesh, mantenendo aperte le frontiere per tutta la durata della crisi, assicurava un rifugio relativamente sicuro ai fuggiaschi e dava spazio a quella prima risposta d’emergenza.

La crisi dei rohingya costituisce un esempio crudo e illuminante di molte delle emergenze su larga scala che oggi provocano movimenti di massa di rifugiati in Paesi con risorse limitate. Esemplifica chiaramente come le conseguenze di queste crisi abbiano l’impatto più forte nel Sud del mondo. Ma illustra anche un fenomeno sorprendente: sono spesso le comunità di quegli stessi Paesi le prime a condividere alloggio, terra, cibo e acqua con le persone in fuga. Non è retorica, l’ho visto in molti Paesi, non solo in Bangladesh ma in centinaia di villaggi africani, alle frontiere di Paesi martoriati dalla guerra come la Siria, negli Stati del Sudamerica alle cui porte bussano milioni di venezuelani in fuga dal collasso di infrastrutture, economia e istituzioni. E quasi sempre questa risposta solidale non diventa – come purtroppo troppo spesso accade oggi in Europa – oggetto di negoziati politici e manipolazioni mediatiche, ma esprime con spontaneità i valori propri a tradizioni, culture e società diverse ma tutte ugualmente aperte al concetto profondo di “asilo”. In altre parole, testimonia di un imperativo umanitario che è condiviso nelle principali tradizioni culturali e religiose, e si rispecchia nel diritto internazionale.

In Siria, otto anni di devastante conflitto hanno costretto alla fuga quasi metà della popolazione pre-bellica, compresi cinque milioni di rifugiati nei Paesi vicini e un altro milione emigrato in Europa e altrove. Per la stragrande maggioranza dei rifugiati siriani accolti nella regione – Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto – la vita resta una battaglia quotidiana, così come per le comunità urbane che li accolgono, sostenendo sforzi immani.

Anche qui, la generosità e l’ospitalità delle comunità di accoglienza sono notevoli, come ho potuto constatare una volta di più in Libano solo qualche giorno fa. Giocano un ruolo importante i legami sociali e familiari e una forte tradizione di ospitalità locale plasmata da una storia multiculturale segnata dalla diversità. Le sfide, però, sono molte e si stanno aggravando: la storia del Libano è anche costellata di fratture; le complesse dinamiche politiche regionali e locali e l’impatto sociale, economico e politico del vicinissimo conflitto siriano sono significativi, e molti rifugiati devono far fronte a ostilità e discriminazioni. Anche in Giordania, un Paese che negli ultimi 70 anni ha accolto ondate successive di rifugiati palestinesi, iracheni e ora siriani, i crescenti problemi economici rendono quell’accoglienza più difficile e controversa.

Un terzo esempio è quello della Colombia, un Paese che sta provando a uscire da decenni di conflitto civile, e che ora fatica a gestire il flusso massiccio di persone dal Venezuela, che è andato crescendo negli ultimi mesi lungo i duemila chilometri di confine fra i due Paesi. Nelle zone in cui la pace è più fragile, le comunità locali condividono lo scarso cibo e gli spazi ridotti a loro disposizione con i nuovi arrivati, che perlopiù arrivano in condizioni di trauma e indigenza. Ricordo per esempio una comunità di sfollati colombiani vicino a Cúcuta – esiliata all’interno del proprio Paese dal lungo conflitto tra governo e gruppi armati – che ci ha spiegato come si era organizzata per condividere le sue scarse risorse con i venezuelani in arrivo attraverso la vicina frontiera. E con più di tre milioni e mezzo di persone in fuga dal Venezuela, l’impatto della crisi si è ormai esteso all’intera regione.

E diamo uno sguardo anche all’Etiopia, che accoglie quasi un milione di rifugiati in fuga da alcuni degli Stati confinanti – Eritrea, Somalia, Sudan e Sud Sudan – e che negli ultimi anni è diventata Paese-simbolo della messa in atto dei valori di solidarietà, protezione e inclusione dei rifugiati. Ma il prezzo è altissimo. Nella sola regione di Gambella vivono oltre 400.000 rifugiati del Sud Sudan, strappati alle proprie case dal conflitto devastante che ha costretto alla fuga oltre un terzo della popolazione del loro Paese. Sono più numerosi della popolazione locale. Tuttavia, nel gennaio scorso, l’Etiopia ha adottato una storica nuova legge sui rifugiati che allarga l’accesso all’istruzione, al mercato del lavoro, alla registrazione legale di documenti. Non è stato un processo privo di controversie: come in altre parti del mondo, la presenza di rifugiati ha innescato un numero crescente di complessi dibattiti politici. Ma un’analisi scrupolosa e una leadership politica coraggiosa stanno contribuendo a definire in Etiopia un nuovo approccio alla questione dell’accoglienza in Africa: un esempio importante per tutto il continente e per il mondo intero.

I flussi verso l’Europa (così come in altre parti del mondo, in America Centrale verso gli Stati Uniti, per esempio) vanno visti e gestiti in prospettive più ampie. A valle, per così dire, è necessario e urgente che il sistema d’asilo europeo sia riformato – il meccanismo di Dublino chiaramente non è più adeguato alla situazione attuale. Ma è a monte che la risposta deve diventare molto più lungimirante e strategica.

L’Europa investe molte risorse nelle operazioni umanitarie e nello sviluppo economico in Africa e Medio Oriente. È chiaro però che queste risorse non sono indirizzate strategicamente, e non sono sufficienti ad affrontare le cause profonde dei movimenti irregolari, soprattutto povertà e questioni climatiche. Bisognerebbe poi partecipare in modo più coerente e concertato alla risoluzione politica dei conflitti che causano movimenti di rifugiati.

Nel frattempo, è anche necessario stanziare più aiuti, e a più lungo termine, in appoggio ai Paesi che ospitano – come ho detto – la grande maggioranza dei rifugiati nel mondo, per evitare che i rifugiati stessi intraprendano viaggi pericolosi e spesso non necessari. Ricordo che le nostre operazioni nei grandi Paesi d’asilo africani, per esempio, restano tra le più difficili da finanziare. L’argomento che gli aiuti sono già ingenti e hanno raggiunto il massimo del loro volume – un argomento frequente tra i Paesi donatori – non è solamente discutibile, è anche strategicamente sbagliato. Senza una maggiore condivisione di risorse le disuguaglianze tra Paesi e società aumenterànno, rendendo i movimenti di popolazione sempre più ardui da gestire.

Anche i programmi cosiddetti di reinsediamento – tramite quelli che in Italia vengono oggi chiamati “corridoi umanitari” e altri canali – devono essere potenziati. È possibile, ma non deve esserlo solo quando la pressione degli arrivi aumenta.