I nostri figli neri

I nostri figli neri

Di fronte al dramma dei continui naufragi nel Mediterraneo, la famiglia Calò ha deciso di accogliere sei richiedenti asilo africani. Una scelta che ha portato frutti inattesi, racconta mamma Nicoletta.

»Basta, stanno morendo tutti, non si può continuare cosìdobbiamo fare qualcosa. Non abbiamo niente… ma possiamo aprire la nostra casa». Era il 18 aprile del 2015, il giorno del tragico naufragio nel Canale di Sicilia che costò la vita a 700 persone in cerca di una nuova vita in Europa. Antonio Calò, professore di storia e filosofia al liceo classico Canova di Treviso, rientrando a casa, a Camalò, sbottò così, reagendo alla frustrazione silenziosa che già da tempo attanagliava la sua famiglia, attonita e ammutolita di fronte allo stillicidio di morti nel Mediterraneo.

«Finalmente Antonio aveva rotto quel silenzio, interpretando perfettamente i pensieri che covavano dentro di me: ecco, era arrivato il momento», ricorda oggi Nicoletta Ferrara, la moglie di Antonio, maestra a Camalò, catechista in parrocchia, mamma di quattro figli ormai grandi.

»Per ragioni di studio o di lavoro tre dei nostri ragazzi, Andrea, Giovanni ed Elena, vivevano già fuori casa. Con noi cera solo Francesco, allora 16enne, perciò avevamo tanto spazio che, in teoria, avremmo potuto mettere a disposizione per accogliere qualcuno dei richiedenti asilo di cui sentivamo tanto parlare in tv… Un’idea che in qualche occasione avevamo accarezzato, ma che solo quel giorno prese davvero consistenza», racconta Nicoletta. »Capimmo chiaramente che non potevamo più guardare la storia che avveniva sotto i nostri occhi e continuare a vivere la nostra vita. Sentimmo che il Vangelo ci stava chiamando ed esigeva da noi una risposta precisa, esistenziale». E cosìAntonio, Nicoletta e i loro figli risposero. Una risposta che molti avrebbero giudicata – e giudicarono – incosciente e avventata, ma che per questa famiglia “normale”, che in quel periodo stava pensando a organizzare come ogni anno le vacanze estive, aveva il preciso senso di un “sì”, affidato – per i dettagli – alla Provvidenza. «Antonio andò in Prefettura e comunicò la nostra disponibilità all’accoglienza. Ponemmo la condizione che si trattasse di ragazze, perché ci sembrava una soluzione più gestibile, e precisammo che si sarebbe trattato di un’ospitalità a breve termine… Non avremmo mai immaginato che la nostra famiglia si sarebbe allargata a sei nuovi membri, tutti maschi, tutti musulmani, che vivono ancora in casa nostra!».

Nicoletta, ci racconti come andò.

»Dopo qualche tempo, era l’8 giugno, arrivò l’ennesima telefonata della Prefettura che ci proponeva di mandarci alcuni maschi. Da poco, io avevo fatto una bellissima esperienza di incontro con dei giovani migranti accolti dal parroco nella canonica di Povegliano, e Antonio pensò che avremmo potuto chiedere di ospitare alcune di quelle persone: fu la svolta che mi convinse ad allentare le mie resistenze. Quella sera, scortato dalla polizia, davanti a casa nostra arrivò il pullman da cui scesero i nostri sei ragazzi: Ibrahim, Tidjane, Sahiou, Mohamed, Saeed e Siaka, provenienti da Guinea Bissau, Gambia, Ghana e Costa d’Avorio».

Insomma, tutti neri. Come reagirono i vicini?

»Male. Si affacciarono, alcuni scesero in strada per manifestare la loro disapprovazione con commenti negativi e occhiate rabbioseLa reazione iniziale di timore è comprensibile: non erano stati avvisati, visto che tutto era avvenuto molto velocemente, e videro arrivare questi sei africani nel quartiere, una zona tranquilla, con un parchetto per i bambini… la propaganda negativa sul pericolo dei “neri” li aveva senz’altro influenzati. Naturalmente questa reazione provocò in noi tristezza ma anche disorientamento, pensammo che forse avevamo fatto una scelta sbagliata. In quel momento, la vicinanza e il sostegno concreto degli amici furono fondamentali. Tanti venivano a trovarci e ci portavano una torta, una pietanza speciale per cena… Io invitai i vicini a casa, a conoscere di persona i nuovi arrivati: in alcuni casi è servito, il pregiudizio si è sgretolato. Ma altri non ci salutano più da allora. In paese ci sono stati anche pettegolezzi e calunnie. La maldicenza più ricorrente era che avessimo aperto la nostra casa per interesse, per avere presunti finanziamenti. Un’accusa che continua a stupirmi: indice di una società che davvero misura tutto con il metro del denaro!».

Qual è stato, invece, l’impatto di questa scelta di accoglienza sulla vostra famiglia?

»Ha generato tanto bene e ci ha uniti ancora di più. Quando prendemmo la decisione Francesco, il nostro figlio che viveva con noi, era incredulo e felice, e il suo entusiasmo si è poi rivelato pieno di sostanza. In questi anni, i nostri figli hanno reso possibile quest’avventura, aderendo concretamente alla scelta, rinunciando a una vita “normale”, accettando di condividere spazi, beni, ma anche gli affetti: io non ero più solo “la loro mamma”, ma ero madre anche per altri giovani venuti da lontano, a cui dedicavo molto tempo e attenzioni, anche a causa delle tante complicazioni burocratiche da seguire. Sebbene sia difficile crederlo, visto il sovraffollamento che in questi anni ha caratterizzato il nostro salotto e la nostra cucina, in cui aleggiava odore di fritto dal mattino presto fino a sera, io e Antonio abbiamo avuto modo di rafforzarci anche come coppia: noi due, insieme, in mezzo alle gioie, alle difficoltà, alle delusioni. Per la famiglia è stata una ripartenza, sebbene da parte di tutti sia stato necessario mettere in campo una buona dose di tolleranza reciproca».

Lei sostiene che i migranti rappresentino “una benedizione per la nostra società basata sui consumi e sull’individualismo sfrenato”: perché?

»È quello che ho sperimentato. In queste persone con i piedi scalzi e i corpi piagati per le torture subite nel corso di un terribile viaggio, ho riscontrato un senso della vita e una coscienza di ciò che conta molto più spiccati rispetto agli standard della nostra società abituata al consumo. Io vivo nel ricco Nord-Est, dove tendiamo a chiuderci tra di noi, a diffidare degli altri perché dobbiamo difendere ciò che abbiamo: un atteggiamento che toglie la capacità di guardarci negli occhi, di sorriderci. Accogliere, stare insieme, condividere ci ha riportati all’essenziale. Per questo ci sentiamo sinceramente privilegiati a poter dividere la vita con i nostri ragazzi, e non è retorica dire che è più quello che abbiamo ricevuto da loro di ciò che noi abbiamo dato. L’esempio più significativo? La fede vissuta davvero, incarnata nella vita. Noi siamo cattolici praticanti, eppure questi giovani, alcuni giovanissimi, hanno riportato in casa nostra la preghiera costante, la spontaneità nel parlare di Dio, nel metterlo al centro di ogni cosa, nel sentirsi nelle Sue mani. Uno dei miei ragazzi, di fronte a un diniego per il permesso, mi ha rassicurata: “Mamma, c’è un Dio dei poveri, una strada per noi ce l’ha”».

La vostra famiglia ha ricevuto riconoscimenti importanti dal mondo politico: il presidente Mattarella ha nominato Antonio ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, mentre il Parlamento europeo gli ha consegnato il Premio per il cittadino europeo 2018. Eppure lei dice che le istituzioni sembrano porre ostacoli a chi apre le porte: perché?

»Prima di sperimentare certe contraddizioni di persona, io pensavo che fossero regole comuni precise a determinare l’esito delle richieste di asilo nelle diverse commissioni in Italia. Invece, ho constatato che quasi sempre le risposte dipendono dal caso, il che crea un senso di instabilità che si protrae nel tempo. Dal punto di vista burocratico viviamo il caos. I sei ragazzi che abbiamo accolto oggi lavorano tutti, eppure solo i due che hanno un contratto a tempo indeterminato riusciranno probabilmente a regolarizzarsi. Il cammino di integrazione che hanno compiuto non conta. Penso che la politica, a livello europeo, dovrebbe mettere in campo risposte serie, ispirandosi anche alle buone pratiche di accoglienza esistenti. La storia ci chiama».

Lei ha ricevuto attacchi violenti sul web dopo la pubblicazione del libro che racconta la vostra storia, mentre gruppi estremisti vi hanno messo pubblicamente nel mirino: avete paura?

»No, siamo molto sereni. Siamo convinti della strada intrapresa, anche se ci fa molta tristezza che ci sia tanta gente pronta a calunniare. Ma abbiamo ricevuto tantissima solidarietà che ha ampiamente compensato il dispiacere. Tuttavia, credo che questa sia l’ennesima riprova che è necessario smetterla di legittimare qualunque tipo di linguaggio nel discorso pubblico: il clima nel Paese è deteriorato. Allo stesso tempo, vedo una mobilitazione in atto, con tanti giovani in prima fila, che rivendicano i valori della solidarietà, della democrazia, della responsabilità verso il pianeta: questo mi dà molta speranza e penso che ci sia tanto bene, che deve solo uscire allo scoperto. Dobbiamo dargli spazio, perché il male fa più rumore».