Centrafrica nel mirino dei predoni

Centrafrica nel mirino dei predoni

Le ultime elezioni hanno nuovamente scatenato violenze e scontri in molte regioni del Paese, che è in mano a ribelli e mercenari. La testimonianza di monsignor Aguirre Muñoz da Bangassou

 

Usa un’immagine divenuta ormai ricorrente per descrivere molti dei conflitti che devastano l’Africa: «Quando due elefanti si battono, è l’erba che soffre». Ma per monsignor Juan-José Aguirre Muñoz, vescovo di Bangassou, nel Sud-est della Repubblica Centra-fricana, è molto più di una metafora. È la drammatica realtà che lui e la sua gente si trovano ad affrontare ormai da quasi otto anni. Da quando cioè questo Paese incastonato nel cuore dell’Africa è piegato da continue violenze e da una crisi umanitaria senza fine. «Il Centrafrica è sfruttato senza pietà da gruppi ribelli e signori della guerra, alcuni dei quali addirittura stranieri, che controllano ormai l’80% del Paese», denuncia il vescovo.

Comboniano spagnolo, monsignor Aguirre vive in Centrafrica da 42 anni e da 21 è vescovo di Bangassou. Ha attraversato tutta la storia recente e travagliata di questo Paese, condividendo con la gente tante crisi e sofferenze. Eppure non smette di provare profondo sgomento e indignazione per quanto continua a succedere ancora oggi. E a rimboccarsi le maniche sempre e di nuovo per provare a ricominciare.

Bangassou, che si trova al confine con la Repubblica Democratica del Congo, è stata nuovamente conquistata dai ribelli all’inizio di gennaio. E nonostante siano stati cacciati, la gente ha ancora paura a far ritorno alle proprie abitazioni. «Non sanno cosa aspettarsi; non sanno nemmeno se hanno ancora una casa a cui tornare. E intanto vivono sulle isolette di sabbia che si creano in mezzo al fiume durante la stagione secca, o appena al di là, in territorio congolese».

Secondo Medici senza frontiere (Msf), sarebbero circa diecimila le persone che hanno attraversato il fiume Mbomou per trovare rifugio a Ndu. «Le condizioni di vita sono pessime e l’accesso ai servizi igienico-sanitari è limitato», dichiara Marco Doneda, coordinatore del progetto di Msf che opera in questo contesto dal 2017 e che fornisce, oltre alle cure mediche, un sistema di purificazione dell’acqua «fondamentale per prevenire la diffusione di malattie». «Tutti questi sfollati – conferma il vescovo – vivono in condizioni difficilissime; non hanno acqua, cibo, medicine, coperte… solo il poco pesce che pescano nel fiume. Non vogliono tornare, hanno paura e molti sono traumatizzati».

Questa volta, le violenze sono scoppiate a ridosso delle elezioni presidenziali dello scorso 27 dicembre e della riconferma – sancita il 18 gennaio tra molte polemiche – del presidente uscente Faustin Archange Touadera. Il tutto accompagnato da vari attacchi in diverse zone del Paese e da un duplice tentativo di assalto alla stessa capitale Bangui, il 13 gennaio, da parte della Coalition des patriotes pour le changement (Coalizione dei patrioti per il cambiamento, Cpc) che include sei dei più potenti gruppi ribelli, quattro ex Seleka e due ex anti-Balaka, nemici acerrimi sino a pochi anni fa.

Attualmente il governo controlla a malapena la capitale e poche aree di questo Paese, vasto come la Penisola iberica, ma con solo cinque milioni e mezzo di abitanti. I gruppi ribelli invece – una quindicina in tutto – hanno messo le mani un po’ ovunque sulle ingenti risorse minerarie del Centrafrica: oro, diamanti, litio, coltan, uranio… Il tutto complicato dagli interessi e dai giochi di potere dei Paesi vicini – Ciad, Sudan, Niger, Nigeria… – ma anche di alcuni “grandi”, come la Francia che cerca di mantenere antichi privilegi o la Russia che ha nuove mire geopolitiche, oltre all’immancabile Cina. Ma non mancano neppure “vecchie conoscenze” sempre destabilizzanti come l’irriducibile ex presidente golpista François Bozize.

Stigmatizzano perfettamente questa complessa situazione i vescovi del Centrafrica: «La divisione esacerbata della classe politica e la mancanza di patriottismo hanno lasciato il Paese in balìa di predatori e mercenari di ogni genere, sovvenzionati in armi ed equipaggiamenti. La guerra che ci è stata imposta mira a distruggere le profonde aspirazioni del popolo centrafricano, stanco e deluso da infiniti calcoli, conflitti e divisione politiche».
«Questo Paese – denuncia lo stesso monsignor Aguirre – è ricco di acqua, terra, pascoli e risorse minerarie, su cui molti vogliono mettere le mani. Lo Stato non esiste e la gente soffre in modo indicibile».

Anche a Bangassou e dintorni la situazione è tutt’altro che stabilizzata. La città, che era stata conquistata il 3 gennaio, è stata liberata il 14 dall’esercito centrafricano supportato da un battaglione di 150 soldati ruandesi della Missione Onu in Centrafrica (Minusca). Prima di andarsene, però, i ribelli hanno saccheggiato e distrutto tutto quello che potevano sia in citta che a Niakari, a 18 chilometri di distanza. «Erano circa 120 uomini armati sino ai denti – racconta il vescovo -. Hanno saccheggiato anche la chiesa, l’ospedale, le scuole, sono andati casa per casa, ma non sono riusciti a impossessarsi delle auto. Per questo non possono tornare da dove sono venuti, a 200 chilometri di distanza, e si sono fermati minacciosamente troppo vicini a noi».
«La gente è terrorizzata – continua – anche perché circolano molte voci e false notizie. Si sente dire che i ribelli attaccheranno di nuovo. La situazione è ancora troppo precaria e la popolazione è sconfortata».

Questo anche perché sente il governo lontanissimo e lo Stato inesistente. Molti fanno riferimento alla Chiesa cattolica e ai missionari che rappresentano l’unica istituzione veramente nazionale e presente capillarmente in tutto il Paese. «Non solo – precisa il vescovo -: la Chiesa è sempre stata accanto alla gente. Anche in passato, abbiamo vissuto molte volte circostanze simili, ma siamo sempre rimasti anche quando altri sono partiti. Siamo consapevoli che Dio ci aiuta e saprà farci uscire anche da questo pozzo in cui siamo caduti. La gente questo lo sa. Sa che Dio soffre con loro. Perché Dio piange in tutte le guerre».

Ma non è soltanto Bangassou che sta soffrendo, è tutto il Paese che è scosso dall’ennesima gravissima crisi. Bouar, ad esempio, nel Centro-ovest, ha subito un attacco il 9 gennaio, respinto dall’esercito. Circa 17 mila persone (oltre un terzo della popolazione) hanno abbandonato le loro case e si sono rifugiate nella cattedrale (4.000), nella parrocchia di Fatima (2.400), nel convento dei cappuccini di Saint Laurent (5.400) e in quello dei carmelitani di Saint Elie (più di 2.000). Ma l’approvvigionamento dei beni di prima necessità e dei medicinali è molto complicato anche perché l’asse stradale che lega il Centrafrica al Camerun – che di fatto è il “cordone ombelicale” che nutre questo Paese senza sbocco sul mare – è bloccato dai ribelli. Lo scorso 18 gennaio è stato attaccato un convoglio di trenta camion carichi di merci essenziali. «E questo è solo l’ultimo, ennesimo episodio – testimonia Dario Mariani, medico e responsabile dei progetti di Medici con l’Africa-Cuamm in Centrafrica -. Da dicembre, si stima che, al confine con il Camerun, siano stati fermati circa mille camion che dovevano far entrare cibo, medicinali e altri prodotti utili alla popolazione».

Questo sta creando molte difficoltà anche nella capitale Bangui. «I prezzi sono saliti alle stelle! – ci racconta padre Federico, maestro degli studenti del Carmelo di Bangui, dove nel dicembre del 2013 si erano rifugiati diecimila sfollati -. Mi sembra di essere tornato a quel periodo. La situazione è drammatica e non vedo molti spiragli di risoluzione pacifica. La capitale, dopo il tentativo di assalto, adesso è come se fosse sotto assedio. Sta asfissiando. I prezzi, già molto alti normalmente, sono cresciuti moltissimo. Tutto costa enormemente, dai beni di prima necessità, al gasolio al cemento… La gente fa davvero molta fatica a sopravvivere».

Padre Federico, però, non si perde d’animo. E non rinuncia a promuovere iniziative soprattutto per i giovani: «Qui la metà della popolazione ha meno di 18 anni. Molti di loro non hanno mai visto il Paese in pace: hanno sempre conosciuto questa situazione di incertezza e insicurezza, di colpi di Stato e scuole chiuse… Molti cercano di andare nei Paesi vicini, che sembrano il paradiso rispetto al Centrafrica. Sono scoraggiati e anche un po’ arrabbiati. Si rendono conto che c’è tutta una generazione di politici che non ha mai pensato al loro futuro. E ora tanti nodi vengono al pettine».

Lui ha cercato di darsi da fare e ha creato una scuola agricola grazie al finanziamento della Conferenza episcopale italiana, per offrire una formazione e una prospettiva di futuro. Tante altre iniziative sono nate e vanno avanti, seppur tra molte incertezze. Sempre a Bangui, un’équipe intercongregazionale e internazionale di religiosi, formati in Canada, ha promosso il progetto “Caravane”, organizzando sessioni di formazione che hanno lo scopo di riunire persone diverse per età, sesso, classe sociale, etnia e confessione religiosa. «Questo permette loro di vedersi come fratelli e sorelle – sostiene suor Anna Faggion, missionaria comboniana e membro dell’équipe – e di scoprirsi portatori della stessa umanità e dunque protagonisti della costruzione della pace in famiglia, nel quartiere e nel Paese. Le sessioni sono anche luoghi di guarigione, dove le persone paralizzate da traumi dovuti alle violenze subite o viste possono essere aiutate a ritrovare quel più di vita di cui il Vangelo ci parla».

Anche la Piattaforma interreligiosa, di cui fa parte il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, continua a portare avanti iniziative di riconciliazione anche se, con la morte dell’imam Kobine Layama, sta conoscendo un momento di stallo. Lo scorso 31 gennaio, tuttavia, la Piattaforma ha promosso a Baoro una significativa occasione di incontro. «Protestanti, musulmani e cattolici – racconta padre Aurelio Gazzera, pure lui carmelitano – hanno creato e vissuto un momento eccezionale. Più di duemila persone si sono radunate alla rotonda di Baoro per un momento di preghiera, canto e gioia per la pace e per il Paese. Con l’aiuto di Dio, gli uomini e le donne di pace sono più numerosi e più forti di quanti vogliono la guerra».

Lo stesso missionario, tuttavia, ha dovuto annunciare il rinvio (senza data) della Fiera agricola di Bozoum, un evento di grande rilevanza per tutta la regione: «Centinaia di cooperative di produttori di questa zona – dice rammaricato – non possono vendere i loro prodotti come gli altri anni. È un Paese che va indietro, vittima delle violenze e delle ingiustizie, dell’incompetenza e della mancanza di senso del bene comune. Un vero peccato!».
Anche il vescovo Aguirre si trova oggi a dover rilanciare vecchi progetti e a provare a far fronte alla nuova drammatica situazione. In diocesi, infatti, stavano ancora cercando di implementare alcune iniziative avviate due anni fa, dopo che nel maggio del 2017 Bangassou era stata assalita da un gruppo di ribelli che aveva preso di mira in particolare la popolazione musulmana.

«Abbiamo cercato di portare aiuto – rievoca monsignor Aguirre -, ma soprattutto ci siamo messi davanti alla moschea per fare da scudo e siamo rimasti tre giorni, finché non sono arrivati i caschi blu portoghesi. Abbiamo portato circa duemila sfollati musulmani nel nostro seminario minore dove hanno vissuto per tre anni. Adesso cominciavano un po’ alla volta a tornare a casa, ma sono arrivati di nuovo altri ribelli e li hanno rimandati verso il seminario. Stavamo cercando di risanare le ferite di quel terribile attacco che aveva anche una matrice confessionale, per cercare di favorire il dialogo, la coabitazione e la pace».

Tutti questi progetti sono rimasti in sospeso, ma monsignor Aguirre non si scoraggia. «Stiamo lavorando in molti ambiti per aiutare la gente. Seguiamo più di 350 orfani e abbiamo una quindicina di scuole con più di diecimila alunni e un grande ospedale con sala operatoria, centro per malati di Aids e lebbrosario. Abbiamo progetti in ambito agricolo e dell’allevamento. Adesso però tutta la gente è nascosta nella boscaglia e vive in condizioni davvero molto penose. Ha paura dei ribelli che sono così vicini; aspettano che se ne vadano. Ci affidiamo alla Provvidenza perché questo accada prima possibile e finiscano questi momenti di guerra che stiamo vivendo. Cerchiamo di aiutare le persone a stare meglio, rivolgendo loro anche uno sguardo di tenerezza in un momento in cui ci sono così tanta violenza e odio. Speriamo che tutto questo finisca presto e si possa finalmente voltare pagina».