Così resistiamo nello Yemen in guerra

Così resistiamo nello Yemen in guerra

Nel Paese sconvolto da cinque anni di conflitto, Bachir Al Mohallal ha coinvolto gli abitanti dei villaggi in progetti di sviluppo dal basso. «Un modello che va coltivato anche per il futuro», spiega l’attivista

 

Bambini che non hanno acqua pulita da bere e rischiano di morire di colera, ragazzine date in sposa a tredici o quattordici anni da famiglie disperate, giovani senza lavoro e senza prospettive, che – come l’80% degli yemeniti secondo l’Onu – sopravvivono grazie agli aiuti umanitari. E poi metà delle strutture sanitarie del Paese colpite dai bombardamenti, così come migliaia di scuole, con oltre quattro milioni di ragazzi che non possono più studiare. Sono loro, i civili, le prime vittime della guerra che da ormai cinque anni flagella lo Yemen, meraviglioso quanto poverissimo e tormentato Paese che dal Sud della Penisola arabica si affaccia sul mare verso il Corno d’Africa.

Eppure proprio i semplici cittadini, i giovani sull’orlo della disperazione o le madri di famiglia che faticano a mettere in tavola un pasto per i loro figli possono essere i protagonisti, nonostante tutto, della resistenza e, in prospettiva, della rinascita del loro Paese. È questa la ferma convinzione di Bachir Al Mohallal, che dello sviluppo dal basso ha fatto una vera missione di vita. Un po’ per un’attitudine coltivata da anni, un po’ – va detto – per caso.

Nel 2011, quando buona parte del mondo arabo veniva investito dal vento nuovo delle cosiddette “primavere”, Al Mohallal era un giovane marito e padre (allora aveva una figlia piccola, oggi ne ha tre di tre, nove e tredici anni) che, nella capitale Sana’a, lavorava per l’ambasciata francese in progetti di cooperazione internazionale. Già da tempo era impegnato nella società civile e, quando in città cominciarono le manifestazioni di chi rivendicava libertà e democrazia, si trovò in prima linea. Collaborò con Tawakkul Karman, protagonista della mobilitazione femminile premiata poi con il Nobel per la pace, e, nel 2013, fu nominato consigliere per i media del neo-presidente Mansour Hadi (scelto dopo che il predecessore Saleh, al potere da oltre 30 anni, era stato deposto sull’onda della rivoluzione). Ma le sue speranze di una transizione pacifica erano destinate a sfumare rapidamente.

«L’anno dopo, in città arrivarono gli Huthi di Ansar Allah e le armi cominciarono a dettare legge», racconta Al Mohallal, riferendosi all’offensiva del gruppo sciita zaidita, appoggiato dall’Iran, che si dichiarava emarginato dal governo centrale e vittima dei salafiti sunniti. La situazione si aggravò la primavera seguente, con l’intervento, a sostegno del presidente Hadi, della coalizione sunnita guidata dall’Arabia Saudita.

In questo periodo convulso, Bachir fu raggiunto, dal suo villaggio natale vicino a Ibb, tra le montagne del Sud-Ovest yemenita, dalla triste notizia della morte del padre, colpito da un attacco di cuore. Tornò così, per partecipare al funerale, nella regione dove aveva trascorso l’infanzia. «In quell’occasione, mi resi conto di come vivevano i giovani là: non avendo lavoro, oziavano tutta la mattina e trascorrevano poi il pomeriggio a masticare le foglie di khat, dall’effetto stimolante. Ne fui molto colpito. Ma notai anche un’altra cosa: molte delle persone che erano venute a farmi le condoglianze avevano dovuto percorrere con piccole automobili una strada completamente dissestata. Così chiesi loro a bruciapelo: “Non siete capaci di riparare la vostra strada?”. E loro: “Non abbiamo i soldi”. Dissi: “Domani verrò con voi a sistemarla”».

Al Mohallal ancora non lo sapeva, ma l’iniziativa spontanea di quel giorno sarebbe stata il primo passo della ong Pulse for Social Justice, oggi capofila di moltissimi comitati di villaggio dal Nord al Sud dello Yemen. La cui parola d’ordine è: partecipazione attiva e volontaria della cittadinanza allo sviluppo del proprio contesto di vita.

Racconta ancora l’attivista: «Il giorno seguente, mi presentai sul posto con dei semplici attrezzi manuali e, insieme a un gruppo di abitanti, cominciammo a riparare la strada. C’era chi si occupava del lavoro materiale, chi portava cibo e acqua… ognuno faceva la sua parte, gratuitamente. I giovani si dimostrarono molto motivati: non si limitarono a togliere le pietre ma spianarono la carreggiata. In capo a pochi giorni, la via fu rimessa a nuovo. Forte di quell’esperienza, mi dissi che, nonostante la cronica assenza delle istituzioni aggravata a causa della guerra, la gente aveva le forze per diventare protagonista di un cambiamento in positivo».

Gli strumenti messi in campo furono, per forza di cose, molto semplici: un gruppo WhatsApp per gli abitanti, una pagina Facebook e l’idea di creare un “Consiglio cooperativo del villaggio” che rappresentasse i cittadini. «Furono scelte cinque o sei persone, affiancate anche da un capo tradizionale, a cui chiesi di valutare possibili interventi secondo le esigenze locali. “Saremo finanziati dalla Francia?”, mi chiedevano all’inizio le persone. “No, penserete voi a dei progetti che ritenete importanti e li porterete a termine da soli”, rispondevo io».

E così, le prime idee arrivarono: potabilizzare o canalizzare l’acqua, dotare le scuole di banchi e sedie e fare ripartire le lezioni… Tramite il passaparola, l’esperienza si diffuse rapidamente: Al Mohallal fu contattato dagli abitanti di altri quattro villaggi della zona che volevano provare a loro volta ad attivarsi insieme ai quali progettò interventi di pubblica utilità: dalla pulizia delle strade e la raccolta dei rifiuti all’illuminazione delle vie, dalla cura della vegetazione e la piantumazione di nuovi alberi alla distribuzione di cibo alle famiglie bisognose. Tante, queste ultime, visto l’impatto del conflitto sui commerci e sull’approvvigionamento degli alimenti, ostacolato dall’embargo imposto al Paese dalla coalizione a guida saudita.

L’inizio non fu facile. «Per esempio, fin da subito insistetti sulla partecipazione delle donne, ma su questo punto c’era molta diffidenza. Dovetti coinvolgere nel progetto mia sorella, in modo che quell’esempio, proveniente tra l’altro da una famiglia molto legata alle tradizioni come la mia, riuscisse a convincere i miei compae­sani. Non solo. In principio ebbi qualche problema con i locali partiti politici islamisti. Capitava che l’imam cercasse di dirottare le risorse, compreso il denaro raccolto tramite l’auto aiuto, per i suoi scopi, per esempio ristrutturare la moschea… ma la gente non aveva l’acqua da bere! Quindi bisognava fare capire che dovevamo concentrarci sui servizi essenziali. E devo dire che, quando vedevano i risultati dei nostri sforzi, anche i membri dei partiti islamisti li apprezzavano».

Da allora, l’esempio di quei primi cinque piccoli centri del governatorato di Ibb è stato seguito da circa 160 villaggi, in tutto lo Yemen, che ne hanno adottato il metodo basato sulla collaborazione, la solidarietà e la coesione sociale. Un approccio che rientra in quello “sviluppo dal basso” che il fondatore di Pulse for Social Justice ha avuto modo di approfondire in questi anni, grazie a un master all’Università di Lille, in Francia, e a una tesi presentata all’ateneo di Tours.

«Nello Yemen le istituzioni statali non sono in grado di rispondere ai bisogni primari della popolazione, che tra l’altro quasi all’80% dipendeva da stipendi pubblici. Di fronte a questo fallimento di fatto dello Stato, alla perdita di peso dei poteri decentralizzati e al ritiro progressivo delle organizzazioni internazionali, le iniziative popolari di sviluppo basate sul volontariato non potrebbero rappresentare delle risorse importanti per l’economia sociale e più in generale per la lotta alla povertà?», si chiede Bachir Al Mohallal. Di più: «Non potrebbero costituire un nuovo modello di gestione territoriale a metà strada tra i cittadini e lo Stato, che ridisegni il volto della società civile yemenita e ne riconosca l’impatto sul territorio?».

L’attivista ne è convinto. «Osservo un cambiamento di mentalità tra la gente, ma è necessario che queste singole iniziative non restino isolate ed estemporanee, ma siano inserite in progetti strutturati, con un inquadramento giuridico e, in prospettiva, il coinvolgimento dello Stato». Lo sguardo è già proiettato a un dopoguerra che però, al momento, resta un miraggio. Intanto, Bachir sta impegnando le sue energie per convincere dell’efficacia del suo approccio le diverse forze che oggi si fronteggiano nello Yemen e ne controllano pezzi di territorio. È già riuscito a presentarlo ai vertici di Ansar Allah, l’ala politica degli Huthi, al gabinetto del presidente Hadi e persino ai funzionari del movimento separatista meridionale ad Aden.

«Tutti si sono dimostrati interessati, perché si tratta di un modello sostenibile dal punto di vista economico e senza implicazioni politiche». E l’idea è piaciuta anche all’estero: «Ho incontrato una delegazione dell’Unione Europea che ha apprezzato il nostro lavoro e si è detta disponibile a sostenerlo in futuro». Ma servono progetti pilota da presentare, completi di dati e numeri: un dettaglio non da poco nel caos yemenita.

«Persino a Sana’a, quando ho contattato il responsabile del registro civile, mi ha risposto che l’ultimo censimento risale al 2004 e non c’è la certezza che sia corretto! Ma come è possibile stilare un progetto di sviluppo dal basso se non sappiamo nemmeno chi abita in un villaggio o in un quartiere di una città?».

La disorganizzazione è un’aggravante delle tante emergenze che non smettono di scuotere il Paese. La più recente è legata alla pandemia di Coronavirus che ha sconvolto tutto il mondo. E che qui, con metà delle strutture sanitarie distrutte, 500 ventilatori per la terapia intensiva in tutto e solo quattro laboratori in grado di eseguire i test per individuare i casi, potrebbe trasformarsi in un incubo. «La verità – sospira Al Mohallal – è che il virus non è la priorità della gente, che sta già morendo a causa della guerra, della fame e di altre malattie». Ma l’aumento dei morti per sospetto Covid-19 lascia presagire che tragedia si aggiungerà a tragedia. Non solo: «Gli yemeniti oggi sopravvivono in buona parte grazie alle rimesse della diaspora all’estero, negli Usa e nei Paesi del Golfo. Ora, a causa dell’emergenza Coronavirus in quelle zone, il flusso di denaro in arrivo è drasticamente calato e questo avrà conseguenze gravissime qui».

All’inizio di aprile, di fronte alle prime avvisaglie di una probabile estensione della pandemia anche nello Yemen, la coalizione araba ha annunciato una tregua unilaterale, che tuttavia non ha evitato il proseguire di attacchi e violenze in alcune zone, non essendo stata accettata dagli insorti Huthi. L’impressione di molti analisti è che i sauditi stiano cercando una via diplomatica per uscire dalla crisi ma che i ribelli sciiti, trovandosi in una posizione di forza sul campo, vogliano avanzare in territori strategici, per esempio il governatorato centrale di Marib, ricco di petrolio e gas. La loro condizione, per aderire alla tregua, è che l’embargo saudita venga finalmente tolto, lasciando respirare i territori del Nord, sotto il loro controllo.

A complicare la situazione c’è un terzo attore in gioco, il Consiglio transitorio meridionale (Stc), sostenuto dagli Emirati Arabi, deciso a rimettere in piedi lo Stato indipendente che esisteva nel Sud dello Yemen fino al 1990.

«All’origine di tutti i nostri problemi c’è l’intrusione esterna nelle questioni yemenite», sostiene il direttore di Pulse for Social Justice. «L’unica soluzione possibile al conflitto è che noi regoliamo i nostri conti da soli. Forse, la pandemia di Coronavirus porterà gli altri Paesi a pensare ai propri problemi e a lasciarci finalmente in pace».

E forse, prima o poi, le nazioni occidentali – inclusa l’Italia -, che continuano tranquillamente a fare profitti da capogiro vendendo armi alle parti in conflitto nel martoriato Paese della Penisola arabica, decideranno che i centomila morti che già hanno sulla coscienza sono più che sufficienti. Forse.