Mar Musa, la Siria ferita e la pace

Mar Musa, la Siria ferita e la pace

Al Centro Pime di Milano in centinaia ad ascoltare la testimonianza di padre Jihad Youssef: «Quando hanno rapito Paolo Dall’Oglio e poi anche Jacques Murad abbiamo chiesto: Dio dove sei? Ma abbiamo scelto di credere e abbiamo sperimentato la fraternità. La pace con le armi? Non può durare, occorre cambiare il cuore»

 

Una serata per tornare in Siria davvero. Per incontrarla nella bellezza della sua liturgia, ma anche nel volto scavato dalla sofferenza di tanti suoi figli. E proprio lì dentro ritrovare anche la via più autentica per una pace vera. È stato davvero un momento forte la serata «Pace per la Siria» che il Centro missionario Pime ha vissuto mercoledì 23 ottobre a Milano. Un incontro con padre Jihad Youssef, monaco di Mar Musa in Siria, la comunità fondata da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita romano di cui non si hanno più notizie dall’estate del 2013, quando sparì dalla città di Raqqa.

In queste settimane l’avanzata delle milizie turche nelle zone fino a ieri governate dai curdi ha riacceso i riflettori sul conflitto nel Nord della Siria. Ci si indigna, ci si schiera, ma sempre con quell’emotività che svanisce in fretta, non appenna c’è un nuovo tema da discutere. Ma in Siria che cosa resta di questi otto anni? E come vive una comunità monastica che porta nella sua carne le ferite di tutto quanto è successo? Sono le domande che hanno portato centinaia di persone al Pime per partecipare a una liturgia in rito siro-cattolico nella chiesa di San Francesco Saverio e poi a gremirsi nella Sala Girardi del Centro Missionario per ascoltare questa testimonianza.

Racconta l’esperienza di Mar Musa, padre Jihad. Ripercorre il messaggio di questa realtà voluta da padre Dall’Oglio nel cuore della tradizione e della spiritualità dell’Oriente cristiano, ma insieme con una vocazione particolare all’incontro con l’islam. «Tanti vorrebbero dialogare con i musulmani solo in quanto persone, prescindendo dalla loro appartenenza religiosa – osserva -. Ma fermarci solo a questo dialogo della vita, ci porta necessariamente a fallire. Come posso dialogare con una persona escludendone una parte? Non è questo lo sguardo di Dio». La via di Mar Musa – al contrario – è sempre stata quella dell’ospitalità, anche nei rapporti con l’islam: «Imparare dai musulmani la loro fede così come testimoniare la nostra fede in mezzo a loro», riassume il monaco.

Ma è proprio questo volto della Siria ciò che il conflitto è andato a minare. «La guerra è l’espressione del male assoluto – commenta Youssef -. È molto più del semplice sparare. Anche a noi di Mar Musa ha chiesto di cambiare. Ci ha chiesto di rinunciare a tante cose per ripartire dalla vicinanza ai poveri, a chi in Siria non poteva nemmeno fuggire». Una scelta anche questa a caro prezzo. «Proprio la vicinanza ai poveri, senza fare distinzioni tra cristiani e musulmani, ha portato al rapimento di padre Jacques Mourad; era proprio questo ciò che l’Isis non accettava», racconta padre Jihad rievocando l’esperienza dell’altro confratello, priore del monastero di Mar Elian ad Al Qariatayn, sequestrato dall’Isis e poi rocambolescamente fuggito grazie all’aiuto di un musulmano.

«Quando hanno rapito Paolo prima e Jacques dopo a Mar Musa ci siamo sentiti in pericolo – ricorda ancora -. Abbiamo chiesto: Dio dove sei? Anche in quel momento però abbiamo scelto di credere. E abbiamo sperimentato la fraternità universale».

È lo sguardo anche sulla Siria di oggi. Sulle sue ferite vecchie e nuove; sulle intese tra i potenti siglate sulla pelle degli ultimi. «Sono un monaco non sono un politico – premette padre Jihad -: il mio compito è provare a predicare, non parlare di politica. Però non possiamo dire che la guerra in Siria è finita. Non possiamo non vedere che al Nord si continua a gettare nel cestino chi non conta più. Oggi lo vediamo coi curdi ma non sono gli unici; ci sono anche tanti cristiani e altre minoranze che hanno già patito per mano loro quando avevano appoggi potenti ieri e continuano a patire anche oggi. Sono tutte vittime della grande ipocrisia della comunità internazionale. Senza dimenticare le ferite della guerra aperte anche in altre zone della Siria. Nei campi profughi nel deserto, veri e propri campi di concentramento. E poi a Idlib. Tanti invocano: “Dio ci aiuti”, ma Dio non entra nella battaglia. È il cuore dell’uomo a dover cambiare».

Gli chiedono se in Siria sia possibile perdonare. Nel rispondere ha ben presente le ferite personali vissute dalle famiglie dei tanti giovani cristiani siriani che a Milano hanno celebrato la liturgia insieme a lui e sono tra il pubblico ad ascoltarlo. Diversi tra loro studiano in alcune università della Lombardia e del Piemonte grazie a splendidi progetti di cooperazione. «Perdonare oggi in Siria? Non è facile. È un assurdità. A renderla possibile può essere solo la grazia di Dio – risponde il monaco di Mar Musa -. Ma è proprio questa assurdità l’unica strada che allargandosi può creare la pace». Anche perché una cosa è certa: «Una pace raggiunta con le armi non durerà mai in Siria – continua -. È come l’ernia: se schiacci troppo le vertebre prima o poi esce. A Damasco oggi c’è troppa gente che non vuole più saperne di chi vive ancora sulla sua pelle il dramma della guerra. Umanamente è un atteggiamento che comprendo, ma mi preoccupa lo stesso».

Immancabile la domanda su padre Dall’Oglio: che cosa pensano i monaci di Mar Musa sulla sua sorte? E qual è la sua eredità? «Paolo non ci ha lasciato nulla di materiale, ma ha lasciato noi come frutto – risponde padre Jihad -. Come monaco ha offerto la vita e questo non muore mai. Dove si trova lui? Chi lo sa… È come cercare Giuseppe nel pozzo».

Ma in questa eredità c’è soprattutto la volontà di spingersi oltre la paura. Ed è un discorso che non vale solo per la Siria: «Nei momenti difficili a Mar Musa abbiamo avuto paura, sì, ma l’abbiamo attraversata perché crediamo che Cristo è risorto. Attraversare la propria paura è quanto è chiesto a tutti in questo nostro tempo». È un messaggio spirituale quello che il monaco vuole lasciare a chi lo ascolta: «Alle volte bisogna aspettare Dio che sembra dormiente. E questo diventa il tempo delle scelte coraggiose. Il tempo del monoteismo vero. Quello in cui arrivare a poter dire: come Elia non mi sono inginocchiato a Baal».

Sì, c’è una radicalità da ritrovare anche nel cuore delle nostre città: «La rivoluzione in Occidente non avverrà con il carrello pieno al sabato al supermercato. Avverrà quando affronteremo la domanda: dov’è il tuo Dio?».