Farida e il grido di dolore delle donne yazide

Farida e il grido di dolore delle donne yazide

Farida, 22 anni, è una delle poche yazide che dopo la lunga e infernale prigionia dell’Isis, durante la quale per sette volte cercò di togliersi la vita, è riuscita a sfuggire ai suoi aguzzini. E una delle pochissime che, nonostante il dolore lacerante e la vergogna, ha deciso di raccontare al mondo la sua storia

 

Il Nobel per la pace 2018 assegnato a Nadia Murad riaccendo i riflettori sul dramma delle violenze subite dalle done yazide. Alla loro sorte è dedicato uno dei capitoli di «Anime Fiere. Resistenza e riscatto delle minoranze in Medio Oriente», scritto da Chiara Zappa – giornalista di Mondo e Missione – per le Edizioni Terra Santa. Dal volume pubblichiamo un brano che racconta la storia di Farida, una di queste vittime.

 

La stanza è buia, porte e finestre sono sprangate e il caldo è terribile. Farida si sente soffocare. Le fa male dappertutto, non riesce a camminare, la testa pulsa. Da quando l’hanno picchiata sul capo più forte del solito, non ci vede più da un occhio. Mentre giace sul pavimento senza più energie, ripensa a casa sua, a Kocho, un tranquillo villaggio alle pendici meridionali del monte Sinjar. Ha sempre vissuto lì, nel nord dell’Iraq, con la mamma, il papà e i suoi quattro fratelli: Safwan, il piccolino, Sifyan, Kamiran e il più grande, Darvan, il suo preferito, con cui giocava a calcio e qualche volta si confidava. La vita a Kocho era serena, prima della tragedia.

Farida pensa al loro giardino dove si riparava dalla calura estiva all’ombra dei fichi, dei mandorli e degli albicocchi, e alla scuola dove prendeva sempre ottimi voti in matematica. E poi alle storie che il nonno le raccontava sul loro popolo, un popolo pacifico e antichissimo, che era comparso in Iraq millenni prima. Secondo il calendario tradizionale, lei era nata nel 6745. Per il resto del mondo, era “solo” il 1995.

La religione della sua gente era parte della vita quotidiana a Kocho. Già dalla mattina presto, quando ci si rivolgeva al sole nascente e si recitava la preghiera di ringraziamento a Dio, che si manifesta tramite il calore dei raggi. Farida ripensa ai colori vividi delle uova decorate ogni anno, ad aprile, per il Charshama Sor, il “Mercoledì rosso” del Capodanno, e al profumo della valle di Lalish, nelle montagne tra Duhok e Mosul, sede del solenne pellegrinaggio autunnale: sette giorni di celebrazioni, riti suggestivi, preghiere e nuove amicizie con i coetanei giunti da altri villaggi.

Un rumore improvviso, una voce proveniente da fuori la fa sobbalzare e la riporta alla realtà. Sono i suoi carcerieri che parlano. Da quasi tre mesi non si lascia scappare una parola di arabo e non risponde se le rivolgono la parola. Finge di conoscere solo il kurmanji, la sua lingua natale, perché ha sentito quegli uomini discutere tra loro: «Quelle che parlano arabo possiamo mandarle in Libia», dicevano. E lei, terrorizzata e determinata a non arrendersi, ha sigillato le labbra.

L’incubo di Farida è iniziato un giorno di agosto, quando gli uomini dell’Isis hanno attaccato il suo villaggio: hanno ucciso, depredato, devastato. E l’hanno portata via. Prima a Raqqa e poi a Deir ez-Zor, roccaforti siriane di quello “Stato islamico” – in realtà Stato di violenza e terrore – autoproclamato da un manipolo di fondamentalisti senza alcuna umanità. L’ha provato sulla sua pelle, Farida. Con la sua amica Jilan e tante altre ragazze giovani come lei, qualcuna addirittura ancora bambina, rapite dalle loro case per diventare schiave, alla mercé di queste bestie. Ogni giorno arrivano, le picchiano e le violentano. Prima, pregano. Un dettaglio che lascia Farida sconvolta e inorridita: a tanto può arrivare la distorsione malata di una fede. E a tanto può arrivare l’odio per il suo popolo: li chiamano “senza Dio”, “infedeli”, “adoratori del diavolo”. Ma loro, gli yazidi, sono tutto il contrario. (…)

Nell’estate 2014, l’Isis, quello “Stato islamico” costituito dai fanatici seguaci del sedicente califfo al-Baghdadi, dopo aver allungato i suoi tentacoli mortali in varie città dell’Iraq occidentale, sferrò un attacco senza precedenti proprio nel nord del Paese. A giugno caddero Samarra, Mosul, Tikrit. All’inizio di agosto, infine, la violenza del Califfato nero si scatenò attorno al Sinjar, a cominciare dalla città omonima, ai piedi della “montagna degli yazidi” che sorge in modo spettacolare dal deserto, e che essi identificano con il luogo in cui l’arca di Noè approdò dopo il diluvio. I versi dell’antico canto stran ’Edbelleh Beg tornarono vivi, ancora una volta: «Ahimè, Dio mi è testimone, questa mattina i soldati ci hanno attaccato, il nostro mondo è diventato stretto come il telaio di un setaccio».

In quelle settimane terribili, la furia dei fondamentalisti si concentrò contro tutte le minoranze non islamiche, tra cui i cristiani storicamente stanziati nella piana di Ninive e, soprattutto, gli “infedeli” per eccellenza: gli yazidi. Quando gli uomini di al-Baghdadi, con i loro cappucci neri, attaccarono Sinjar, in cinquemila vennero massacrati, in un’azione che
le Nazioni Unite avrebbero poi definito “genocidio”. Messi in fila faccia a terra e decapitati, giustiziati con una pallottola in testa, sepolti vivi, chiusi in edifici poi dati alle fiamme. Le loro case saccheggiate. I loro santuari rasi al suolo. Le loro donne violentate e rapite per essere vendute al mercato e diventare schiave sessuali, così come migliaia di altre ragazze (in tutto almeno cinquemila) portate via dai villaggi yazidi dell’area o sorprese durante l’esodo disperato che spinse 50 mila persone a cercare rifugio sul monte.

Tra queste ragazze c’era anche Farida Khalaf. «Dopo che il sindaco di Kocho rifiutò la conversione in massa all’islam, ci ordinarono di riunirci tutti nella piazza centrale e poi trascinarono le donne al secondo piano della scuola. Con dei bus ci portarono in un altro villaggio, dove noi ragazze più giovani fummo separate dalle altre. Infine, dopo una notte a Mosul, ci smistarono di nuovo: io e altre 46 fummo trasportate in Siria, a Raqqa». Farida, che oggi ha 22 anni, è una delle poche yazide che dopo una lunga e infernale prigionia, durante la quale per sette volte cercò di togliersi la vita, è riuscita a sfuggire ai suoi aguzzini. E una delle pochissime che, nonostante il dolore lacerante e la vergogna, ha deciso di sfidare lo stigma sociale che spesso accompagna queste sopravvissute per raccontare al mondo la sua storia. La sua, e quella del suo popolo, troppo a lungo perseguitato nel silenzio assordante di tutti.