Harris e Fiore, storie di libertà

Harris e Fiore, storie di libertà

Un profugo sopravvissuto per miracolo alla traversata del Mediterraneo e un ristorante che dà nuova vita a un bene confiscato alla mafia. Nella Giornata della memoria delle vittime dell’immigrazione – oltre 17 mila nel Mediterraneo dal 2014 – una storia che “sa di buono”

Questa è una storia di persone, di incontri, di relazioni. La storia di un ragazzo che ha viaggiato, per necessità e per contingenza, e in quel viaggio ha trovato se stesso. A comporre la sua identità e la sua personalità di oggi, ci sono anche i volti e le esperienze, le fatiche e le gioie che lo hanno accompagnato nel suo personale esodo dall’Africa all’Italia. E c’è anche la storia di “Fiore-cucina in libertà”, un bene confiscato alla ‘ndrangheta calabrese, che ora a Lecco è un ristorante-pizzeria “della legalità”, dove Harris lavora come lavapiatti. E, intanto, impara anche a fare la pizza.

Siamo seduti a una grande tavolata di legno liscio e chiaro, al centro della quale spunta, quasi arrivasse dal cuore della terra, una pianta di limone. I suoi rami sono appesantiti da limoni ancora verdi. Dietro la schiena di Harris c’è un muro alto, composto da tanti piccoli mattoni bianchi, tutti uguali e regolari. Questa è la scenografia, sulla quale prendono forma le parole di Harris, un ragazzo del ’96 originario del Ghana. Sbarcato in Italia nel 2014, i suoi ricordi li sente bene, sono tutti lì, sotto la punta delle dita, dentro la sua pelle: raccontarli, mi dice, lo rende nudo, vulnerabile. Ma lui ha scelto comunque di ricordare e di narrare, per riappropriarsene. Sono diventati anche parte integrante del nuovo libro di Daniele Biella, Con altri occhi. Incontri nelle scuole dialogando sulle migrazioni, pubblicato da Aeris Cooperativa Sociale di Vimercate.

Harris è stato costretto ad andarsene non a causa della guerra o dalla fame. Ma di una vendetta: «In Ghana stavo bene – ci racconta – avevo la mia famiglia, i miei amici: la mia vita. Sono stato obbligato ad abbandonare tutto perché mi avevano accusato di un crimine che non avevo commesso. Alcune persone ci hanno creduto e mi cercavano per vendicarsi». Nel 2016, gli ispettori della Commissione nazionale italiana per il diritto d’asilo hanno verificato la fondatezza delle motivazioni di Harris e gli hanno conferito protezione da parte del nostro Paese.

Partito dal Ghana, Harris percorre sopra un camion il deserto, a soli diciassette anni, senza amici né parenti. Anche lì i rischi sono altissimi: «Siamo stati fermati da un gruppo di predoni che ci hanno chiesto una “tassa” per il passaggio. Chi non aveva i soldi veniva portato via. Io ho dato loro tutto il denaro che avevo con me». Giunto in Libia, Harris viene obbligato a lavorare per guadagnare abbastanza soldi per pagare il viaggio sul barcone. «I trafficanti non ti lasciano tornare indietro o cambiare meta – racconta con lo sguardo pesante -; vogliono trarre profitto da tutto, dal tuo lavoro o dal “biglietto” per il passaggio in Europa».

«I primi giorni in Libia sono stati difficilissimi: avevo finito i soldi e ho dovuto barattare il mio orologio in cambio di cibo. Mi era stato regalato da uno zio ed era l’ultimo ricordo concreto che avevo della mia famiglia».

Dopo alcuni mesi in cui lavora come muratore Harris riesce a imbarcarsi. Parte nel cuore della notte,  per un viaggio che sembra non finire mai, stipato insieme a oltre cento persone nella stiva. «Senza luce e soprattutto senz’aria», ricorda. Impotente, Harris vede spegnersi due persone, un bambino di pochi anni e una donna. «Non so come ho fatto a salire sul ponte, il buio ce l’avevo nella testa in quel momento. Quando sono riuscito ad arrivare all’aperto e ho respirato finalmente un po’ d’aria fresca, ho rivisto anche il mondo a colori: quelli degli abiti sgualciti degli altri passeggeri, l’azzurro del mare immenso, la scia bianca della barca…».

Sono state le navi della marina militare italiana a salvare Harrus e gli altri. «Mi è sembrato un miracolo!», dice. Non sa neppure dove è sbarcato. Poco dopo è sono stato messo su un pullman insieme ad altri: «Una volta in strada ci hanno detto che la nostra destinazione sarebbe stata un centro di prima accoglienza vicino a Monza».

È all’interno dell’hub che Harris passa i suoi primi mesi italiani. E qui incontra Aeris: dal 2011, infatti, questa cooperativa opera attivamente nella gestione dell’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo sul territorio di Monza e della Brianza. Attraverso la mediazione di Aeris, Harris si trasferisce a vivere a Osnago nel Lecchese, secondo il principio dell’accoglienza diffusa che vorrebbe favorire una maggiore conoscenza e integrazione con la popolazione locale.

Nel 2016, prende parte attivamente al progetto culturale lanciato da Aeris, Con altri occhi. Questa esperienza si pone l’obiettivo di invitare i ragazzi e gli insegnanti delle scuole elementari e medie a guardare l’altro, il diverso, appunto con occhi nuovi. Le testimonianze e i racconti di Harris e di altri ragazzi aiuta i bambini a immedesimarsi, comprendendo le sofferenze e le istanze che li hanno spinti ad affrontare l’ignoto, e imparando a conoscere direttamente una realtà come quella dei migranti. «Rispondevo sempre a tutte le domande perché solo così potevano conoscere ciò che io e altri avevamo vissuto. Ma anche da dove sono partito, i sogni e i desideri che mi hanno animato e dato coraggio». L’intento di questo progetto è trattare con chiarezza il tema delicato dell’accoglienza e di sviluppare una logica dell’incontro, favorendo la diffusione di una cultura di solidarietà, comprensione e accettazione delle diversità.

Nel caso di Harris questo percorso lo ha portato a trovare casa e lavoro a Lecco nel ristorante-pizzeria “Fiore-cucina in libertà”. Un luogo che – per la sua storia – condivide con Harris le difficoltà di un viaggio pieno di ostacoli. Fino al 31 agosto 1992, infatti, quei locali ospitavano il ristorante “Wall Street” di proprietà del boss di ‘ndrangheta Franco Coco Trovato, con all’interno un bunker in cemento armato, protetto da una porta blindata spessa venti centimetri. Era il posto in cui venivano pensati e organizzati sequestri, omicidi e traffici di droga.

Ma è solo nel 2011, che il Coordinamento di Libera fondato a Lecco si interroga su come utilizzare quel bene confiscato. Viene avanzata l’idea di creare una “pizzeria della legalità”. Quel sogno, però, si realizza però solo nel maggio del 2015 quando l’Associazione temporanea di scopo, composta dalla cooperativa sociale La Fabbrica di Olinda di Milano (capofila), da Arci e Auser Lecco vincono il bando promosso dal Comune di Lecco che porta alla creazione di “Fiore-cucina in libertà”.

C’è voluto molto tempo e tanto lavoro per ricostruire quei muri: ora la parete che sta alle spalle di Harris mentre mi racconta la sua vicenda è bianca e sotto di essa, come un labirinto di colori e profumi, si dispiega un orto botanico con piante aromatiche. Sono i sapori che Francesca, la direttrice di sala di “Fiore”, cura insieme allo staff del ristorante; sono i profumi che Giorgio, lo chef, e Ben, il suo valente aiuto-cuoco, usano in cucina per arricchire di un “sapore buono” i loro piatti. Quella parete, l’intero ristorante, e quei sapori freschi trasmettono anche un sapere dalla forza profonda: una forza che deriva dalla consapevolezza dell’importanza della legalità e della giustizia, nonché, in ultima istanza, della libertà. Una parola in cui anche le storie parallele di Harris e di “Fiore” hanno trovato un punto d’incontro e uno stimolo a fare sempre  meglio.