«Non si può essere stranieri per sempre»

«Non si può essere stranieri per sempre»

La guerra civile in Somalia, l’Africa attraversata in pullman, l’impegno in Italia con «Generazione ponte»:  Abdullahi Ahmed, 32 anni – somalo e italiano, oggi mediatore culturale – racconta nel libro «Lo sguardo avanti» la sua storia e i suoi progetti di oggi

La storia di Abdullahi Ahmed è simile a quella di migliaia di altri giovani africani che lasciano il loro Paese d’origine per cercare in Europa la salvezza da conflitti e un futuro migliore. Ma è quanto è accaduto dopo il suo arrivo in Italia a renderla così diversa e interessante. Abdullahi, 32 anni, è nato a Mogadiscio, in Somalia. Fin da bambino, ha conosciuto gli effetti della guerra civile, che ha lacerato la società dividendola fra clan rivali e minando la convivenza civile. A 19 anni – lui che non conosceva neppure tutti i quartieri della capitale – ha attraversato la Somalia, l’Etiopia, il Sudan per poi affrontare il deserto del Sahara e approdare in Libia, dove ha atteso l’agognato passaggio verso l’Europa. È giunto a Lampedusa il 26 giugno 2008. Poi, il destino l’ha portato in Piemonte, a Settimo Torinese.

Come tanti migranti, non sapeva una parola d’italiano, ma con tenacia e intraprendenza ha imparato. È mediatore culturale ed è tra i fondatori del Festival dell’Europa Solidale e del Mediterraneo a Ventotene. Lavora per l’associazione Generazione Ponte, che ha creato insieme ad altri giovani rifugiati e seconde generazioni per valorizzare una cultura di convivenza pacifica e dialogo. Vive a Torino e ha raccontato le sue idee e la sua avventura umana nel libro Lo sguardo avanti. La Somalia, l’Italia, la mia storia (pubblicato da Add Editore, 12 euro).

Perché sei venuto in Italia?

«Ho provato sulla mia pelle cosa significa la guerra civile. Volevo un futuro migliore, e ho capito che nel mio Paese non l’avrei avuto. Inoltre, sono il figlio maggiore di una famiglia numerosa: ho quattro fratelli e due sorelle. I nostri genitori hanno fatto di tutto per farci crescere al meglio in Somalia, ma non dipendeva più da loro. Se fossi riuscito ad arrivare in Europa, avrei potuto offrire ai miei fratelli la possibilità di studiare».

Sei scappato lasciando solo una lettera ai tuoi genitori. Come hai fatto a cavartela con il viaggio, che è molto costoso?

«Sono partito con i soldi per pagare il biglietto del pullman che mi ha portato alla frontiera con l’Etiopia. Poi, ho chiamato i miei genitori: loro hanno compreso le mie motivazioni e mi hanno appoggiato, inviandomi il denaro necessario. Chi parte è una sorta di investimento: se giunge a destinazione, potrà essere di aiuto a familiari e parenti».

In Libia hai vissuto un’esperienza che ti ha segnato. Che cosa è successo?

«Chi arriva in Libia non vede l’ora di andarsene al più presto possibile, allora come oggi. Lì, in un Paese africano, ho scoperto per la prima volta di essere nero, e ho conosciuto il razzismo nei confronti dei migranti. Anche se ero musulmano e loro pure, questo non importava: contava che non ero libico. Non ci sono solo i campi di prigionia, è la vita quotidiana a essere complicata per un migrante in Libia. Una notte mi hanno chiamato insieme ad altri ragazzi e a un uomo per partire per l’Europa. Un banale litigio per i posti sul taxi ci ha impedito di imbarcarci. Due giorni dopo, abbiamo saputo che la barca sulla quale dovevamo salire era affondata ed erano tutti morti. Quella che mi era sembrata una sfortuna si è rivelata la mia salvezza. Dio ci ha aiutati».

Una volta giunto in Italia, come sei diventato mediatore culturale?

«Ho iniziato dando una mano a miei connazionali somali, che erano giunti in Italia ma non conoscevano la lingua e non sapevano come muoversi. Così ho scoperto l’esistenza di questa figura. Mi serviva una qualifica professionale per poterlo fare al meglio, quindi ho frequentato un corso che mi ha permesso di trovare subito un lavoro».

Nel libro, dici che non ti piace usare la parola “integrazione”. Perché?

«Perché implica un movimento in un’unica direzione: è lo straniero che deve fare qualcosa per inserirsi nella società che lo ospita. Mi piace di più l’idea di “interazione”, che implica un’azione reciproca per trovare il modo di stare insieme».

Sei diventato cittadino italiano nel marzo 2016. Al di là del passaporto, quando hai iniziato a sentirti anche italiano?

«Non si può essere stranieri per sempre, ma per riuscire a essere veri cittadini, occorre conoscere il passato della società in cui si vive e contribuire al suo futuro. Occorre partecipare: sono stato volontario del servizio civile nazionale. Ricordo anche un momento speciale, legato allo sport, che può unire le persone. Sono tifoso del Toro e dopo un anno che vivevo a Settimo un amico mi ha invitato allo stadio. Quando il Torino ha segnato, tutti i tifosi seduti vicino a me mi hanno abbracciato. Ho pensato sorpreso “Mamma mia, tutti questi bianchi mi abbracciano!”. Quell’abbraccio spontaneo mi ha fatto sentire parte di una comunità».

Hai fondato nel 2018 l’associazione Generazione Ponte. Quali progetti state seguendo?

«Lavoriamo in Italia e all’estero, per promuovere buon vicinato, cittadinanza attiva, dialogo interreligioso e interculturale, sensibilizzazione degli studenti nelle scuole. Con il progetto Luoghi Comuni abbiano coinvolto oltre 100 ragazzi di nazionalità diverse, inclusi rifugiati, per far conoscere i luoghi e il patrimonio italiano, a partire dal Piemonte, con percorsi guidati da altri giovani già cittadini, residenti da più tempo o seconde generazioni. Ogni anno, il 25 aprile a Ventotene organizziamo il Festival dell’Europa Solidale e del Mediterraneo, che punta a superare il razzismo e promuovere una cultura di pace. In tre edizioni, sono state coinvolte oltre mille persone. Il Manifesto di Ventotene è importantissimo: quando fu scritto, nel 1941, l’Europa era già in guerra, ma si può sempre pensare a costruire un mondo diverso e migliore».

Un esempio a cui ispirarsi per i giovani italiani, e anche africani.

«Anche in questi tempi di Covid e di didattica a distanza, promuoviamo il dialogo. Vogliamo sensibilizzare i ragazzi italiani che hanno avuto la fortuna di non conoscere la guerra: attraverso le piattaforme online, siamo riusciti a fare dei collegamenti internet con fra studenti italiani e somali, che hanno potuto scambiarsi esperienze. Sono tornato da poco dal mio primo viaggio in Somalia dopo 13 anni, con l’obiettivo non solo di rivedere la mia famiglia, ma anche di portare avanti un progetto di cooperazione internazionale. Abbiamo aiutato 64 giovani somali attraverso borse di studio per dare loro gli strumenti per pensare, essere liberi e autonomi. I tempi sono cambiati: per aiutare l’Africa, non basta costruire un pozzo in un villaggio. Bisogna investire sul futuro e sul capitale umano. Avere dei giovani laureati preparati è un beneficio per il Paese».

Sei riuscito a far studiare i tuoi fratelli, come sognavi?

«Quattro di loro ce l’hanno fatta con il mio aiuto: uno è medico, un altro informatico, un altro ancora architetto e una sorella è infermiera. Adesso che sono autonomi, posso pensare a me: quest’anno mi sono iscritto a Scienze Politiche».