Migranti e virus: chi si ammala (e muore) a casa nostra

Migranti e virus: chi si ammala (e muore) a casa nostra

Anche badanti venute dall’Est Europa o infermieri maghrebini tra le vittime del Coronavirus in Italia. E sono già 215 i migranti filippini morti a causa del virus tra Stati Uniti, Europa e Medio Oriente

 

«Mia mamma aveva un carattere forte e non sempre facile, ma Elena aveva fin da subito saputo prenderla: era una persona straordinaria, premurosa, onesta e gentile e credo che mia mamma non abbia sopportato il dolore della sua morte».

Non ha trovato spazio nei racconti degli «eroi del Covid 19» la storia di Cucula Lenuta detta Elena. Per trovarla bisogna andare nella pagina delle necrologie dell’edizione on line del Messaggero Veneto. E scoprire che – oltre a lei, badante romena di 60 anni – a Cordenons, in provincia di Pordenone, è morta anche l’anziana signora di 89 anni che curava ormai da quindici mesi. La seconda, però, non l’ha portata via il Coronavirus: secondo i medici ad esserle fatale è stato piuttosto il dolore per il distacco dalla sua badante.

Mentre in Italia in queste ore si torna a parlare di migranti – anche con i toni vergognosi di alcuni fogli che ormai è difficile continuare a definire giornali – vale la pena di raccontare anche l’altro volto del rapporto tra Coronavirus e migrazioni. Quello dei tanti migranti che il Covid19 non l’hanno affatto portato, ma l’hanno preso nelle nostre case o lavorando nei nostri ospedali. E proprio per prendersi cura di noi in queste settimane sono morti.

Perché non è affatto un caso isolato la storia della badante di Cordenons. Spulciando tra le notizie si trovano infatti diverse di storie di lavoratori immigrati caduti tra le vittime dell’emergenza proprio per essere stati accanto alle persone più fragili. Dalla Romania, per esempio, veniva anche la signora Constantina Gurgu, un’altra badante di 64 anni che assisteva una donna ultranovantenne a Giove, un paese in provincia di Terni. Anche lei è morta qualche giorno fa per il Covid 19. E – particolare interessante – a differenza di quanto regolarmente accade nei casi di cronaca nera questa volta nella notizia il giornale locale non scrive che Titina (come la chiamavano tutti in paese) veniva dalla Romania.

Dalla Tunisia invece era giunto quindici anni fa in Italia Oualid Mohamed Ayachi (nella foto in alto), infermiere di 51 anni, marito di un’altra ex-infermiera tunisina e padre di quattro figli. Svolgeva il suo lavoro tra gli anziani ricoverati presso la RSA Sant’Erasmo di Legnano (Mi). È morto nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale di Novara, la città dove abitava. «Oualid era un uomo dolce, instancabile sul lavoro e sempre pronto a prendersi cura della famiglia – ha raccontato la moglie -. Per lui non era un sacrificio andare da Novara e Legnano tutti i giorni. Diceva sempre che non avrebbe mai cambiato posto di lavoro perché gli piaceva dove stava». In questo periodo di emergenza Oualid ha lavorato sino all’ultimo: «Continuava ad affermare che non poteva restare a casa, perché c’era bisogno di personale per assistere gli anziani».

Tre storie a cui se ne potrebbero aggiungere anche tante altre provenienti dall’Europa e dall’America di oggi. Per capirlo basta citare un dato, quello ufficiale del ministero degli Esteri delle Filippine che – parallelamente ai dati sul contagio nel Paese – sta raccogliendo anche quelli sui propri emigrati caduti vittima del virus. A oggi il conto è arrivato a 1906 casi in 46 diversi Paesi, per un totale di 215 morti. Il numero più alto di vittime le autorità di Manila lo hanno registrato nelle Americhe con 121 morti in 6 diversi Paesi (Stati Uniti in primis). Ma anche in Europa risultano già 73 lavoratori filippini morti in 16 Paesi; e – visti i dati – non è difficile immaginare che alcuni di loro siano morti qui in Italia.

Molte di queste vittime del Coronavirus tra l’altro si sono ammalate proprio negli ospedali, dove lavorano moltissimi infermieri filippini. Tra loro ha fatto notizia la storia di Larni Zuniga, 54 anni, infermiere presso una casa di riposo di Surrey Hills, a pochi chilometri da Londra. Era immigrato in Gran Bretagna da dodici anni, da cinque non vedeva la sua famiglia, rimasta nelle Filippine. In febbraio aveva ricevuto la cittadinanza britannica. È morto il 24 aprile al Saint Thomas Hospital; lo stesso dove è stato curato il premier britannico Boris Johnson.