Sull’isola dei disperati

Sull’isola dei disperati

A Manus, in mezzo all’Oceano Pacifico, sono reclusi da quasi sei anni 400 migranti da Iran, Iraq, Africa. Cercavano una nuova vita in Australia, ma Canberra li ha relegati qui. Dove loro, oggi, non ce la fanno più…

 

Amin Afravi, iraniano indipendentista ahwazi, mi aspetta all’ingresso del reparto. Così non devo spiegare nulla alle guardie di turno. È assente anche il temuto direttore sanitario, che impone una disciplina ferrea sull’accesso ai pazienti. Solo un nervoso infermiere filippino rimprovera Amin ad alta voce di non aver informato la caposala del mio ingresso. Ma anche questo si calma quando vede la piccola croce sulla mia camicia e scambiamo due battute che subito allentano la tensione. Così, uno ad uno, Amin mi presenta una ventina di degenti di origine iraniana, irachena, pachistana, sudanese, somala… Sono tutti sotto l’effetto di sedativi, con gravissimi problemi mentali. Yahya Abd Yacoub, iracheno, 50 anni, nella camera di terapia intensiva rifiuta acqua e cibo da due settimane. Lo tiene in vita una flebo. Avevo già sentito di lui e della sua intenzione di lasciarsi morire.

Appare un pochino meno grave un altro paziente pure irakeno con pezzi di metallo nello stomaco, ingeriti nell’ennesimo tentativo di farla finita con la vita. Abrahim Jabar, invece, sfuggito al genocidio del Darfur, in Sudan, a soli 29 anni grida dal dolore per i calcoli ai reni, ma per una decina di minuti riesce almeno a mettersi seduto sul letto e raccontare qualcosa della sua storia. Sono compagni di viaggio e di sofferenza loro malgrado questi giovani per lo più tra i 25 e i 35 anni, alcuni arrivati in Papua Nuova Guinea a 18 o 19 anni. A Port Moresby, la capitale, sono solo alcune decine di loro, per ragioni mediche, i più gravi ricoverati appunto in un reparto a porte chiuse al Pacific International Hospital, una struttura privata nel business della sanità, e trattati solo con pastiglie anti-depressione. Almeno 400 invece rimangono sull’isola di Manus, a quasi due ore di volo verso nord nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Li vedi camminare per le strade di Lorengau, il piccolo capoluogo di provincia. Alcuni si arrabattano al mercato per guadagnare qualche soldo. Altri hanno fatto amicizia con gente o famiglie del posto e spendono la giornata con loro. Una quarantina di ragazze hanno avuto figli da questi stranieri e in alcuni casi vivono una relazione stabile, seppur senza documenti di sorta. La maggior parte però rimangono chiusi in camera quasi tutto il giorno.

Alle sei del pomeriggio, tutti dentro i campi. Appena fuori dal paese, quello per i rifugiati, che ospita la maggior parte delle persone. Molto più distante quello per i richiedenti asilo, ancora 135 senza uno status internazionale. Il 90% di tutti loro prendono pastiglie per dormire la notte. Almeno una cinquantina, i più gravi appunto in ospedale a Port Moresby, non ritroveranno mai più la completa salute mentale. Sono impazziti. Molti altri sono sull’orlo del precipizio dopo anni di sofferenze ed incertezze. Sono stato a Manus due giorni, tra il 20 e il 22 gennaio, nel corso dei quali si sono verificati tre casi di autolesionismo e tentato suicidio. Difficile identificare il confine tra le due situazioni. Ma un iraniano, ricoverato all’ospedale provinciale in stato confusionale e che ho potuto visitare, era sorvegliato a vista perché minacciava di impiccarsi.

Questi uomini disperati sono arrivati a Manus tra il luglio 2013 e il febbraio dell’anno successivo. È il “modello australiano” di controllo dell’immigrazione irregolare, avviato dal governo laburista di Kevin Rudd e inasprito da quello conservatore subentratogli nel 2014. Ma il sistema, indicato dal ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini come un esempio a cui ispirarsi, ha delle tragiche falle. I migranti arrivati via mare dopo il 19 luglio 2013 si sono visti negare la possibilità di avere la loro richiesta di asilo esaminata in territorio australiano. Gli uomini soli solo stati indirizzati a Manus, le famiglie, le donne e i bambini a Nauru, una piccola isola-Stato ancora più distante nel Pacifico. Dopo il febbraio 2014, apparentemente il blocco navale tra l’Australia e l’Indonesia ha funzionato alla perfezione. I barconi non sono più partiti o sono stati intercettati e rimandati al punto di partenza. Il traffico perpetrato da elementi senza scrupoli, con la complicità della polizia indonesiana, si è interrotto.

A pagare il prezzo più alto sono stati i migranti intrappolati a Manus e Nauru. I due centri, costosissimi, sono stati organizzati, con il consenso dei rispettivi governi, non esattamente per l’analisi delle richieste di asilo fuori dal territorio australiano (off-shore processing), ma come deterrenza contro le partenze irregolari e gli sbarchi in Australia. In Papua Nuova Guinea è stata utilizzata la vecchia base navale alleata di Lombrum, appunto sulla remota isola di Manus. Lì i migranti sono stati tenuti in totale isolamento fino al 26 aprile 2016, quando la Corte Suprema a Port Moresby ha dichiarato illegale e anticostituzionale la detenzione forzata di individui che nessun reato avevano commesso contro il popolo e lo Stato della Papua Nuova Guinea.

A ciò è seguito il trasferimento in nuovi campi, più vicini alla popolazione e fuori dal perimetro militare, sotto il controllo del governo locale e non più australiano, che tuttavia continua a provvedere le limitate cure mediche disponibili in Papua Nuova Guinea con pochi e faticosi trasferimenti dei casi gravissimi in Australia. Circa un terzo dei 1.500 migranti arrivati a Manus, per lo più quelli spinti a lasciare il loro Paese da ragioni economiche, hanno accettato un aiuto per tornare al luogo di provenienza. Circa 135 rimangono senza determinazione di stato, alcuni di questi hanno rifiutato gli interrogatori per i più svariati motivi: animosità personale, timore di essere poi costretti a rimane in Papua, orientamento e pratica omosessuale (punibile con il carcere fino a 14 anni in Papua Nuova Guinea) come motivo di allontanamento dal Paese di origine… Alla maggior parte dei detenuti a Manus è stato invece riconosciuto lo status di rifugiato politico e quindi la possibilità di diventare cittadini di qualsiasi altro Paese.

Solo un pezzo di carta, però, al momento! Il governo conservatore australiano (in carica fino a maggio) rimane fermo sulla sua posizione di rifiutare l’ingresso a chiunque abbia tentato di raggiungere il Paese via mare. Non solo. Nega anche la possibilità di accoglienza offerta dalla Nuova Zelanda. Il presidente americano Barack Obama, quasi al termine del suo mandato, si era accollato l’onere di accogliere i rifugiati di Manus e Nauru. Ma l’arrivo di Donald Trump ha complicato enormemente le cose. Anzitutto la messa al bando di alcuni Paesi musulmani. E poi la lentezza dei procedimenti, il rifiuto di molte richieste senza motivazione, la disperazione che ne consegue… La Papua Nuova Guinea consente, ad ogni rifugiato che lo desideri, di rimanere nel Paese, ma solo poco più di quaranta di loro per ora hanno accolto questa opzione.

Tutti i richiedenti asilo e la maggior parte dei rifugiati, quindi, per ora rimangono bloccati a Manus. Nessuno di loro può tornare al Paese di origine per motivi di sicurezza personale. Le sofferenze patite in patria in passato, il distacco dalla famiglia, il viaggio fino in Indonesia, la traversata in mare, i cinque o sei anni a Manus a scopo di deterrenza, privati della libertà personale e nella totale incertezza del futuro, tuttavia ora presentano il conto. Dal settembre 2018 i casi di autolesionismo e tentato suicidio sono aumentati in modo esponenziale e sono ora all’ordine del giorno. «Quando la testa scoppia – mi dice un curdo iraniano – l’unica cosa che ti rilassa è la vista del tuo sangue». Per cui questo ragazzo, che insegnava inglese in patria ed è diventato il leader naturale e un portavoce a Manus, mi confida che si è tagliato almeno cento volte, ma sotto il cuoio capelluto, per estrarre solo poche gocce di sangue e non ingenerare ulteriore preoccupazione e scoramento tra i compagni di sventura. Esiste documentazione fotografica dei numerosi casi di autolesionismo e tentato suicidio. Forse un giorno inchioderanno qualcuno alle proprie responsabilità.

La Conferenza episcopale della Papua Nuova Guinea si è opposta fin dall’inizio all’operazione Manus in considerazione delle difficili condizioni logistiche e sanitarie del Paese oltre che, naturalmente, dei paradossi legali. Il 1° novembre scorso, padre Ambrose Pereira, direttore dell’ufficio comunicazioni sociali, ha organizzato un dibattito pubblico sul problema, con la presenza di un centinaio di persone tra rappresentati governativi, delle Nazioni Unite, ong, esponenti ecclesiali e studenti. Unica assente l’ambasciata australiana a Port Moresby. La richiesta finale del forum è stata quella di evacuare i rifugiati e richiedenti asilo entro Natale 2018. Nulla naturalmente è successo. A gennaio, come ho detto, mi sono recato a Manus. Ho parlato con numerosi ospiti, con rappresentanti dell’ufficio immigrazione, dell’ospedale, del governo provinciale, gente comune e membri della locale parrocchia di San Michele. Il ritornello, espresso quasi automaticamente e con le stesse parole, è sempre stato che il momento è giunto per questa gente di lasciare Manus e riprendersi la propria vita da qualche parte. Il governo ha accettato anche la nostra richiesta di una breve visita ai campi, inoltrata attraverso il decano parrocchiale di Manus padre Clement Taulam; la prima volta per rappresentanti della Chiesa. I campi sono ordinati, ben sorvegliati e puliti, ma il mandato principale delle guardie è quello di prevenire i tentativi di suicidio.

È stata comunque la visita scioccante al Pacific International Hospital, di ritorno a Port Moresby, ad aprirmi completamente gli occhi sulla gravità della crisi sanitaria in corso. Non ho potuto fare a meno di rivolgere una lettera aperta al primo ministro, Peter O’Neill, per un nuovo intervento diretto e decisivo presso il governo australiano. Che difficilmente, però, cambierà la sua posizione prima delle elezioni di maggio. Solo che, nelle attuali condizioni dei rifugiati e richiedenti asilo a Port Moresby, i mesi sono come anni. Altre persone che perderanno la ragione, altri feriti, quasi certamente altri morti!