L’arcivescovo Battaglia: «Helder Camara e la mia vocazione»

L’arcivescovo Battaglia: «Helder Camara e la mia vocazione»

Al recente Convegno missionario dei seminaristi, l’arcivescovo di Napoli ha ricordato il suo incontro negli anni Ottanta con l’indimenticato vescovo delle favelas brasiliane: «Nel suo abbraccio ho sperimentato l’abbandono di Dio»

«Tra le braccia di dom Helder Camara ho sentito e sperimentato l’abbandono in Dio. Quel giorno avvenne la mia scoperta. E, in quell’abbandono in Dio, sperimentai la mia prima consacrazione». In un intervento recente l’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia ha ricordato così le origini della sua vocazione. Intervenendo al Convegno missionario nazionale dei seminaristi ha rievocato l’incontro con il grande arcivescovo brasiliano di Olinda e Recife, per più di vent’anni pastore dei poveri nelle favelas, scomparso nel 1999.

L’incontro tra il giovane Battaglia e mons. Camara avvenne negli anni Ottanta, quando la Chiesa calabrese organizzò un incontro con una rappresentanza di giovani delle diverse diocesi per programmare la pastorale giovanile. Nel tempo dei dubbi sulla strada da percorrere nella propria vita, l’incontro con la piccola e fragile figura del vescovo brasiliano, toccò il cuore e la mente del futuro pastore di Napoli anche in particolari apparentemente marginali. «Mangiò pochissimo: due fili di pasta – ricorda mons. Battaglia -. Non volle la carne: “No, grazie, disse, la mia gente non la mangia”. Non volle neanche il caffè: “No, grazie, disse, alla mia gente lo fanno produrre il caffè, ma non glielo fanno bere”. Se negli occhi di mia madre avevo intravisto la luce dell’amore di Dio, in quest’uomo avevo colto il senso divino della giustizia».

«Dio mi confermava – ha sottolineato l’arcivescovo di Napoli – attraverso le braccia paterne di dom Helder. Dio mi dava appuntamenti, a me era richiesto soltanto di rendermene conto, abbandonandomi alla meravigliosa incoscienza di un sì».

Ma c’è stato anche un altro personaggio importante nella storia vocazionale dell’arcivescovo di Napoli, un altro vescovo, meridionale come lui, a cui si sente legato: don Tonino Bello, indimenticato vescovo di Molfetta e grande testimone di pace. «Dio si manifesta e ci parla attraverso situazioni apparentemente assurde – ha commentato ancora mons. Battaglia – persone umili e semplici, testimoni controcorrente, uomini e donne innamorati della pace in un mondo che osanna le guerre, uomini e donne vestiti di un grembiule che hanno avuto la capacità di rinunciare ai segni del potere per servirsi del potere dei segni. Questi uomini e queste donne diventano così per noi missionari, uomini e donne che si sporcano le mani con il fango del nostro cuore fino a rintracciarvi dentro l’azzurro del cielo, l’oro della figliolanza, restituendoci così al nostro cammino, alla sequela. Tutto questo è stato per me don Tonino Bello e io lo ringrazio perché ha segnato profondamente la mia vita, e continua ad essere fecondo di semi, di amore e di novità».

«A lui – ha aggiunto ancora l’arcivescovo di Napoli – debbo la lezione fondamentale sull’impegno e sul volontariato sociale; proprio lui mi ha insegnato che prima di ogni cosa, di ogni teorico valore, di ogni alto ideale, ci sono i nomi, i volti, le storie. Se ripercorro la strada delle mie scelte, di questa vocazione profondamente inquieta, comprendo che la mia scoperta di Dio, o meglio, la mia ricerca e il mio lasciarmi raggiungere, è stata, ed è, una strada segnata dai volti, dagli incontri, dalle persone: non i poveri generici, ma coloro che incontro; non i malati ma i volti segnati dal dolore di ciascuno di essi; non i problemi sociali, ma la storia concreta di chi si incontra sul cammino».