La doppia appartenenza: dall’Africa al Messico

La doppia appartenenza: dall’Africa al Messico

La pastorale indigena in Messico vista con gli occhi di un missionario africano: «I sacrifici che ho abbandonato in Africa per diventare cristiano li ritrovo in un contesto evangelizzato da secoli. Come inculturare rendendo davvero un culto a Cristo?»

 

Padre Ferdinand Kouadio Komenan è un missionario del Pime di origini ivoriane che da qualche anno ormai svolge il suo ministero in Messico. Quella che segue è una sua testimonianza personale su una sfida pastorale molto concreta che il ministero che sta svolgendo tra le popolazioni mizteche del Guerrero gli ha posto di fronte.

 

VITA PAGANA

Il nome tradizionale che ho ricevuto alla nascita è Gna Kla. Tutti mi conoscono con questo nome a M’Bahiakro, in Costa d’Avorio, dove sono nato e cresciuto, anche se all’anagrafe sono stato registrato con un’altra identità.

Kla è l’idolo protettore della mia famiglia. Ricevendo il nome di Gna Kla, ho ricevuto anche una vocazione e una missione: offrire sacrifici. E così è stato. Sin dall’infanzia, partecipavo ai riti sacrificali nei quali si chiedeva dei favori agli spiriti, o per ringraziare gli dei. Anche se la recita delle formule di libagione e gli incantesimi erano riservati agli adulti, ero presente e attento a quanto dicevano gli anziani mentre spruzzavano il liquore o il vino di palma a terra. A me, invece, toccava sgozzare gli animali. Per questo ruolo non c’era un’età minima, bastava essere maschio. Ed io lo facevo con zelo.

Poco a poco ho imparato anche le parole da proferire quando l’animale offerto agonizzava nella posizione sbagliata. Ho imparato ad interpretare se il sacrificio era stato gradito oppure no. Conoscevo il complesso di gesti e parole inerenti ai sacrifici rituali.

CONVERSIONE-VOCAZIONE

Così ho fatto per anni finché un giorno ho incontrato Cristo; anzi, Cristo mi ha incontrato dove nemmeno me lo aspettavo. Ho deciso di donargli la mia vita, di rinunciare definitamente e radicalmente ai sacrifici e a tutte le altre forme d’idolatria. Mi sono convertito. Non ero più pagano, adepto della religione tradizionale, ma cristiano cattolico convinto e praticante. Avevo abbandonato la tavola della carne offerta in sacrificio per sedermi alla tavola del Corpo e del Sangue di Cristo.

La notizia l’ho data io stesso allo zio capo-famiglia. La mia non è stata una scelta gradita. Mio zio mi fissò negli occhi e scosse la testa con tristezza come per dire: «Ho perso mio nipote».

Da quel giorno non ho più partecipato a nessun tipo di rito tradizionale. Non ho più consultato gli indovini. Mi sono iscritto alla catechesi e tre anni dopo, nel 1992, ho ricevuto il battesimo e la prima comunione. Avevo 16 anni. La cresima, l’avrei ricevuta un anno dopo.

La mia curiosità per le questioni legate alla fede cattolica e la volontà di conoscere Cristo in profondità mi hanno portato poco a poco fino al discernimento vocazionale che poi mi ha condotto ad essere oggi missionario di Gesù Cristo in Messico.

Da prete tradizionale a prete di Gesù Cristo! Chi l’avrebbe mai pensato!

PASTORALE INDIGENA

Per spiegare bene la pastorale indigena con i suoi riti è necessario accennare le tre tappe dell’evangelizzazione in Messico:

  1. Giustapposizione: All’arrivo dei missionari spagnoli, i popoli indigeni avevano già la loro religione. Adoravano i loro dei e avevano i loro riti di purificazione. La giustapposizione consistette nel proporre il Vangelo di Gesù Cristo parallelamente ai riti pagani.
  2. Sovrapposizione: Si è trattato di sovrapporre il Vangelo e il sacrificio eucaristico ai riti tradizionali in un tentativo di soffocare il vecchio culto con la novità del Vangelo.
  3. Sostituzione: Dopo la giustapposizione e la sovrapposizione, si è passati ad una sostituzione vera e propria dei riti pagani con il Vangelo. Così, gli indigeni sono passati dal paganesimo a cattolicesimo.

Il problema è che in realtà, la sostituzione per molti versi è stata solo teorica. Ancora oggi, sussistono i riti tradizionali, praticati non da pagani, ma da cattolici. Si assiste ancora alla giustapposizione di due riti totalmente opposti, ma purtroppo praticati dagli stessi cristiani. C’è una promiscuità fra la religione tradizionale e la fede cattolica.

TLALOC O SAN MARCO?

Gli antichi indigeni offrivano sacrifici alla divinità Tlaloc per chiedere la pioggia. Oggi, dopo sei secoli di evangelizzazione, lo stesso rito sussiste sotto altre forme. Non si menziona più il nome di Tlaloc; è stato sostituito da quello di san Marco Evangelista. Il 25 aprile, in effetti, festa di San Marco, in ogni villaggio mizteco si celebra l’invocazione della pioggia per intercessione del santo. Il sacerdote tradizionale (rezandero) riceve gli animali offerti dalle famiglie, compie le invocazioni e la libagione spruzzando l’aguardiente (liquore di canna da zucchero) a terra, sgozza gli animali, sparge il sangue sulle foglie di banano in mezzo alle candele, la croce e la statua di San Marco.

I fedeli che vanno a casa del rezandero ad offrire gli animali, sono gli stessi che vengono alla parrocchia a chiedere la Messa per la pioggia. Durante la Messa ricevono il corpo di Cristo e, in casa del rezandero, mangiano la carne offerta in sacrificio a san Marco-Tlaloc. A volte, le due celebrazioni si fanno addirittura contemporaneamente. Mentre celebro la Messa su un tavolino, il rezandero fa i suoi incantesimi in un angolo, per il beneficio dei fedeli che, comunque aderiscono pienamente alle due fedi. E a volte officiare come rezandero è lo stesso catechista del villaggio…

DOPPIA APPARTENENZA

Questo è esattamente quanto diceva papa Benedetto XVI in Africae Munus quando poneva il problema della «doppia appartenenza», cioè mangiare alla tavola eucaristica e mangiare all’altra tavola. Ma è difficile far capire la necessità di abbandonare i riti sacrificali.

IL DILEMMA 

Sin dalla mia ordinazione, ho promesso di essere un sacerdote secondo il cuore di Dio, disposto a servire le necessità spirituali dei fedeli. Ma quando una celebrazione mi spinge al passato, quando un rito mi fa tornare a nuotare nelle acque sporche dalle quali mi sono purificato nel 1992 con il battesimo, lo rifiuto gentilmente. Non è buono tornare a mangiare ciò che ho sputato anni fa.

L’UOMO EVANGELIZZA, DIO CONVERTE

Ogni qualvolta provo a spiegare che non si può mangiare «con le due mani», cioè partecipare all’Eucaristia ed essere adepti dei riti sacrificali, la gente si difende dicendo che è parte della loro cultura. È chiaro che come missionario non posso sradicare la cultura dei miei fedeli; anzi, lavoro nell’inculturazione. Ma l’inculturazione non può essere la porta d’ingresso del sincretismo religioso, dove tutti gli ingredienti diventano buoni per fare un brodo religioso. È chiaro che l’inculturazione significa vivere la fede in Gesù Cristo con il nostro retroterra culturale, ma occorre capire la differenza fra ciò che è «culturale» – cioè relativo alla cultura – e ciò che, invece, è «cultuale», cioè inerente al culto.

Ma la pazienza e l’ottimismo giocheranno a nostro favore. L’uomo evangelizza, ma chi cambia il cuore e la mentalità è Dio stesso.