Missione: i giovani che vorremmo

EDITORIALE
Credenti, colti e coraggiosi. A questi giovani torniamo a dire: considerate il servizio missionario a vita come possibilità concreta e carica di significato

 

Non guasta nell’Ottobre missionario un appello rinnovato ai giovani credenti a considerare il servizio missionario a vita come possibilità concreta e carica di significato. Meglio non trascurare quindi durante gli anni della scuola superiore e dell’università la domanda fondamentale sul che fare della propria vita. Giusto riservarle il tempo e l’attenzione necessari, aprendosi a guide adulte invece di cullarsi nel tepore delle mura domestiche come se l’infanzia non dovesse mai concludersi.

Per l’attività missionaria ci vorrebbero giovani che al massimo a venticinque anni (meglio prima) abbiano già deciso e siano ancora dotati di quella freschezza di mente e di cuore che permetta loro di studiare filosofia e teologia, se incamminati verso il sacerdozio, e comunque di apprendere le lingue, adattarsi a diversi climi e abitudini culturali; che scrutino l’orizzonte piuttosto che continuare a guardare dentro casa o a tornare col pensiero (e con lo smartphone!) alle cose e alle persone che si sono lasciati alle spalle.

Il Vangelo non sarebbe mai arrivato neppure a Roma e sulle coste del Mediterraneo se i primissimi cristiani si fossero accontentati di essere missionari generici là dove vivevano, lavoravano e avevano una famiglia. Non ci sarebbero oggi Chiese cristiane fuori dall’Europa se alcune migliaia di giovani europei non fossero partiti negli ultimi secoli per questo preciso scopo.

Non ci sono dubbi quindi circa la necessità di missionari “di professione”. L’espressione può anche non piacere ed apparire troppo tecnica o secolare. Ma è chiaro che, in modi diversi e a seconda dei tempi, lo Spirito suscita evangelizzatori che, ricolmi dell’amore di Dio e del prossimo, si mettono al servizio del suo Regno: visibile in germe nella Chiesa, piena di difetti, quindi sempre da edificare, ma anche di Grazia.

Sant’Ignazio di Loyola e san Francesco Saverio trovarono nelle università del Cinquecento i più validi missionari. Da lì anch’essi provenivano. Una solida base culturale e la familiarità con le professioni secolari (medico, insegnante, giornalista, ingegnere, architetto, letterato…) giovano alla vocazione missionaria sia sacerdotale e ancor più laicale. E questo non solo come possibilità di inserimento là dove la figura ecclesiastica suscita apprensione e persino rigetto da parte dell’ambiente e dell’autorità politica (quasi tutta l’Asia, ad esempio), ma per una maggiore capacità e possibilità di parlare alla società nel suo complesso oltre la ristretta cerchia dei membri di una comunità cristiana già costituita. Credenti, colti e coraggiosi. Sono questi i giovani che servono per l’attività missionaria.