L’altro Giappone che aspetta Francesco

L’altro Giappone che aspetta Francesco

Le fatiche nascoste di una società dove solo apparentemente tutto funziona. Ma anche l’anelito alla pace e al dialogo tra le religioni. Viaggio nel Paese dove il Papa farà tappa dal 23 al 26 novembre

«No, in un posto come il Giappone non puoi proprio fare il missionario da solo, a me piace lavorare in rete. Quindi: vuoi capire qual è il Paese che Papa Francesco si appresta a visitare alla fine di questo mese? Facciamocelo raccontare da alcune persone». Vive a Tokyo ormai da una decina d’anni padre Andrea Lembo, missionario del Pime e superiore regionale per il Giappone. Se c’è una cosa che ti sa comunicare fin dal primo momento è l’idea che la missione è sempre una storia di incontri. Lui lo vive personalmente al Centro Galilea, il crocevia che ha aperto con la sua comunità a Funabashi, nella grande metropoli, con lo sguardo rivolto in maniera particolare al mondo dei giovani (vedi il box a pagina 9). Ma è anche la via maestra che ci indica per entrare davvero in un Paese dove le immagini da cartolina (squarci di una bellezza vera) convivono oggi con tante fatiche. E dove essere missionari è saper far incontrare Cristo a partire da un’umanità vissuta nella sua pienezza.

Il primo stereotipo da superare è quello del Paese ricco; certo il Giappone è una grande potenza economica globale, ma basta andare oltre le luci dei grattacieli e addentrarsi in qualche vicolo laterale per scoprire una realtà un po’ diversa. «Nelle città ci sono sacche sempre più ampie di povertà», racconta a Tokyo la signora Shirahata Maki, cattolica, che una decina d’anni fa ha fondato la Mensa dei bambini. Si tratta di una realtà sociale che si prende cura dei minori ma anche di tante altre povertà nascoste che toccano il mondo dei giovani e sono frutto di tante contraddizioni di un sistema sociale ed economico dove tutto è orientato al lavoro.o, in un posto come il Giappone non puoi proprio fare il missionario da solo, a me piace lavorare in rete. Quindi: vuoi capire qual è il Paese che Papa Francesco si appresta a visitare alla fine di questo mese? Facciamocelo raccontare da alcune persone». Vive a Tokyo ormai da una decina d’anni padre Andrea Lembo, missionario del Pime e superiore regionale per il Giappone. Se c’è una cosa che ti sa comunicare fin dal primo momento è l’idea che la missione è sempre una storia di incontri. Lui lo vive personalmente al Centro Galilea, il crocevia che ha aperto con la sua comunità a Funabashi, nella grande metropoli, con lo sguardo rivolto in maniera particolare al mondo dei giovani (vedi il box a pagina 9). Ma è anche la via maestra che ci indica per entrare davvero in un Paese dove le immagini da cartolina (squarci di una bellezza vera) convivono oggi con tante fatiche. E dove essere missionari è saper far incontrare Cristo a partire da un’umanità vissuta nella sua pienezza.

«Quando una persona raggiunge i diciott’anni perde il diritto a essere sostenuta dallo Stato – racconta -. Ma quella è un’età in cui oggi si fatica a diventare indipendente. Così mi sono detta: voglio aiutarli. Non ho pen­sato tanto a una mensa, ma a un ambiente sicuro dove offrire la possibilità di passare del tempo insieme durante la giornata».

In dieci anni è diventata una rete di piccole strutture a cui sono iscritti 300 ragazzi, intorno ai quali ruotano un centinaio di volontari. Il punto di partenza è stato lo sguardo sui problemi delle famiglie: «Sono nata nel dopoguerra quando il Giappone era povero, ma c’era un senso della famiglia allargata, si viveva insieme coi nonni, con gli zii – racconta la signora Shirahata -. Anche nella comunità cristiana c’era più corresponsabilità nell’educazione. Oggi invece i genitori sono lasciati soli». Per di più una certa mentalità legata al lavoro a volte acuisce i problemi: «Una piaga che sta crescendo molto è la povertà dei giovani manager – racconta padre Lembo -. Le aziende, nei loro processi organizzativi, hanno pre­so l’abitudine di trasferire i quarantenni nelle sedi decentrate. Solo che di solito hanno figli ormai grandi che hanno iniziato percorsi di studi ben precisi, in pochi riescono a trasferirsi con la famiglia. Così accade che questi uomini si ritrovano soli a centinaia di chilometri di distanza da casa. Capita che alla sera comincino a frequentare i locali fino a tardi, a bere. A volte finiscono per non starci più dentro e perdono il lavoro. Solo che a quel punto è una tragedia perché ci sono una famiglia lontana da mantenere, le rette della scuola per i figli. Finiscono per andare a cercare un lavoro più umile per mantenere comunque il proprio impegno e non creare disonore. Mentre loro vivono in situazioni di fortuna, nascondendo alla famiglia quanto è successo».

Si tratta solo di una delle tante alienazioni nascoste dietro al modello di una società apparentemente perfetta. «Siamo partiti pensando alle famiglie in difficoltà – continua Shirahata Maki -. Ma ci siamo presto resi conto che arrivavano tanti ragazzi che avevano maturato essi stessi problemi psichiatrici o relazionali. Proprio questa situazione ci ha fatto capire l’importanza di creare un posto dove possano sentirsi a casa. L’obiettivo è guardare alla loro vita con uno sguardo ampio, partendo dalla storia di ciascuno».

Ci indica uno dei ragazzi che sta studiando: «Soffre di una lieve carenza mentale – spiega -. Aveva anche trovato un lavoro grazie al meccanismo delle quote per i disabili. Solo che qui non esiste un inserimento vero; così ha incontrato subito difficoltà nelle relazioni con le altre persone e questo ha aggravato i suoi problemi. Qui invece ha trovato un ambiente in cui ha potuto aprirsi. Gli abbiamo detto: visto che il tuo non è un handicap grave, perché non provi ad andare avanti a studiare per trovare un lavoro migliore? Ha cominciato un nuovo cammino».

Shirahata Maki è cattolica, ma il suo centro è nato fuori dalle strutture «ufficiali» della Chiesa giapponese. Perché? «Qui vengono ragazzi di tutte le religioni, forse entrare in una struttura cattolica creerebbe delle barriere – risponde -. Certamente però esiste anche il problema di un certo ritualismo, una distanza tra quanto sentiamo nel Vangelo – la preferenza per i poveri, gli ultimi, gli emarginati – e le attività che effettivamente poi vengono svolte all’interno della nostre parrocchie. Capisco le difficoltà della Chiesa che deve gestire delle strutture, non è così facile mantenerle vive e nello stesso tempo uscire. Però è stando fuori, tra queste persone lasciate ai margini, che noi riusciamo a mostrare il volto di Gesù nel contesto della società giapponese».

Qualcosa comunque si sta muovendo in questo senso. Per esempio nella parrocchia di Fuchu da cinque anni è nata la Caritas e l’anno scorso ha preso il via anche un’esperienza legata proprio alla Mensa dei bambini. La comunità si ritrova una volta al mese per un pranzo vissuto insieme a chi vive delle difficoltà. «L’idea è dare importanza al territorio in cui si vive – raccontano le signore Tsutsui e Sakihama, che portano avanti quest’attività -. Le statistiche dicono che nel nostro quartiere un bambino ogni sette vive in stato di povertà. Molti si ritrovano a pranzare da soli mentre i genitori lavorano per stipendi che non sono adeguati al costo della vita. Capita che abbiano anche poco cibo. Per ora riusciamo a organizzare questo momento solo una volta al mese, però l’idea è soprattutto passare del tempo insieme. E questo ha dato alla comunità la possibilità di aprirsi». Chiediamo alla signora Shirahata che cosa si aspetta dalla visita del Papa. «Certamente il fatto che vada a Hiroshima e a Nagasaki è molto importante – commenta -. Però bisognerebbe che lui e le persone che lo accompagnano vedessero anche questa realtà fragile della gioventù giapponese di oggi. Parlare loro di una povertà che non è solo economica, ma soprattutto psicologica. Se questo accadesse sarebbe davvero una grande cosa».

 

IL GIOVANE SACERDOTE

«Uno dei punti di forza della Chiesa in Giappone è il suo andare dritto alla fede: qui non ci sono mediazioni; possiamo solamente annunciare la dolcezza, la bellezza, la misericordia e la giustizia di Dio. E chi si avvicina alle nostre comunità cristiane proprio questo cerca». Padre Matzuo Futoshi è un giovane sacerdote agostiniano che vive il suo ministero a Nagasaki, la città che per la sua storia è il cuore del cattolicesimo giapponese. Oggi oltre che in parrocchia è impegnato in una scuola elementare, in quella frontiera dell’educazione che è tradizionalmente uno degli ambiti attraverso i quali i cristiani sono presenti nella vita del Paese.

«Sono cresciuto in una famiglia cattolica – racconta -. La mia vocazione è stata un po’ come l’allergia al polline: qualcosa che ti cresce dentro lentamente e poi a un certo punto quando esplode la scopri. Però c’è stato un momento che ho avvertito come particolarmente importante nella mia vita: a 23 anni ho partecipato a un pellegrinaggio in Corea e là ho incontrato una persona anziana che parlava giapponese. Lo aveva dovuto imparare forzatamente durante l’occupazione, ma non portava alcun rancore. Diceva: il Signore ha voluto questo incontro, se non mi avessero costretto allora oggi non avrei avuto la grazia di parlare con te. Queste parole mi hanno molto colpito. Mi sono detto: sono un segno per la mia vocazione».

Trasmettere oltre tutte le ferite di ieri e di oggi la speranza e la bellezza della vita mostrate da Gesù: questo per padre Futoshi è il compito della Chiesa in Giappone. «Anche nella società giapponese il significato della famiglia si sta sgretolando – conferma -. Lo vediamo nella nostra stessa scuola: ci sono famiglie che vivono la realtà della separazione, dissidi interni, madri e padri single, coppie che si risposano… In un contesto come questo i bambini faticano a trovare modelli in grado di indicare loro un senso alla propria vita. Per questo cerchiamo di farli crescere guardando alla persona di Gesù. Ma lo stesso discorso vale per i giovani: vivono in una società complessa, che li tiene occupati in mille cose ma ricorda poco il Vangelo. E allora non si tratta tanto di istruire, ma di camminare insieme a loro, vivere prima di tutto un’amicizia». Ed è proprio questo anche il messaggio che il giovane sacerdote giapponese si attende da Papa Francesco. «Spero possa portare la dolcezza e la gioia del Vangelo – commenta -. Abbiamo bisogno che i più giovani non sperimentino solo le difficoltà di questa società, ma possano ascoltare il calore del Vangelo e della persona di Gesù».

Nagasaki è anche la città dei martiri che tra il XVI e il XVII secolo hanno segnato la storia del cattolicesimo nel Paese del Sol Levante e a cui Papa Francesco renderà omaggio. «Come la Chiesa di Roma anche la Chiesa giapponese è fondata sul loro sangue – spiega padre Matzuo -. Ma non c’è stato solo il martirio di chi è stato ucciso; abbiamo avuto anche quello di chi ha dovuto rinunciare a ogni forma esterna della sua religione mantenendo comunque la determinazione a portare avanti la trasmissione della fede. Il romanzo da cui è stato tratto il film Silence ce lo ha raccontato molto bene. Ma in fondo è quanto accade anche oggi: viviamo in una società che per molti versi ci è ostile. L’annuncio del Vangelo in Giappone va avanti lentamente, in maniera poco visibile; però lascia lo stesso il segno. Penso per esempio ai nostri asili: molti giapponesi dopo averli frequentati da piccoli non hanno più alcun contatto con la Chiesa anche per venti o trent’anni. Poi però può capitare che per mille ragioni si riavvicinino alla fede. E a quel punto ti accorgi che, per esempio, hanno comunque custodito nel cuore alcune preghiere. Sono piccoli esempi ma ci fanno capire come il seme del Vangelo si diffonde».

Gli chiediamo del passo in più che secondo lui è chiesto oggi alla Chiesa del Giappone. «Bisognerebbe investire di più nella formazione dei laici – ci risponde -. Io stesso prima di entrare nella famiglia degli agostiniani conoscevo ben poco della Bibbia. Ma lo ribadisco ancora: non è tanto una questione di insegnare, ma di camminare insieme. Solo così si costruisce la comunità». Senza dimenticare l’impegno per la costruzione della pace: «È una delle vocazioni per la Chiesa giapponese: siamo chiamati a costruire legami sia dal punto di vista internazionale sia all’interno: comprendere gli errori del passato, ciò che ha portato eventi tragici e da lì poter costruire la pace».

 

IL MONACO BUDDHISTA

Il tema della pace è uno degli orizzonti che ci indica anche Nabeshima Ryusho, un altro trentenne del Giappone di oggi, bonzo del tempio Kyomizudera, nella regione di Fukuoka. Viene da una famiglia in cui la mamma è cattolica e il papà di tradizione buddhista, per cui ha respirato l’esperienza del dialogo interreligioso fin da piccolo. Gli chiediamo che cosa rappresenti per lui. «Ci incontriamo regolarmente con cattolici, protestanti, ma anche persone di altre religioni – ci risponde -. L’idea è quella di una condivisione intorno alla spiritualità: nel dialogo si fa veramente l’esperienza dell’incontro con l’altro. Nel dialogo la mia preoccupazione non è tanto vedere se chi ho davanti ha ragione oppure no. Mi domando piuttosto se sto capendo quanto lui mi sta dicendo. E se così non è siamo nell’atteggiamento giusto per aiutarci a vicenda».

Proprio questo sguardo ci riporta al tema della pace, che sarà uno dei nodi centrali del viaggio di Papa Francesco: «Durante la Seconda guerra mondiale il Giappone ha vissuto l’esperienza della sconfitta, è stato il teatro delle due bombe atomiche – ricorda il monaco buddhista -. Ma non dobbiamo dimenticare le ferite che abbiamo inferto agli altri Paesi. Solo se comprendiamo questo capiamo anche perché il Giappone abbia inserito nella sua Costituzione il mandato della pace, bandendo lo strumento della guerra. Oggi qui lo si sta mettendo in discussione. Invece dobbiamo salvaguardare l’idea che il Giappone debba tendere la mano agli altri Paesi». La pace è comunque un filo rosso che può portare molto lontano: «È un’esperienza che non tocca mai solo due persone – io e te; deve allargarsi almeno a una terza, a chi  non è direttamente coinvolto – annota il monaco Ryusho -. Per questo nella cultura della pace la preghiera è qualcosa di molto importante. Perché il rifiuto della guerra parte da dentro, dal proprio cuore. Devo guardare alle mie ombre, alle mie difficoltà, per allargarmi alle persone che sono vicine e da lì alla società. Mi interrogo molto su come trasmettere questi messaggi. Come persone siamo sempre portati a guardare il mondo solo a livello di ragionamento; invece dovremmo imparare a cogliere di più l’attimo nell’ambiente in cui si vive. Una delle ricchezze che noi giapponesi stiamo perdendo è il contatto quasi inconscio con la natura. Questo sguardo oggi si va sfaldando. E invece è importante perché ci aiuta a cogliere la verità di dove si trova la propria vita in questo momento».

Gli chiediamo del suo tempio, che è dedicato alla dea Kannon. Ci porta a visitarlo e ci fa notare come sia costruito facendo in modo che lo sguardo del fedele e quello dell’immagine sacra si incontrino alla stessa altezza. Ci consegna anche un’immagine molto bella della tradizione buddhista: la nostra vita è come la schiuma prodotta da una cascata quando va a gettarsi in un lago; tante sofferenze e preoccupazioni sono solo schiuma, quello che resta è l’acqua.

Anche il monaco Ryusho condivide però tante domande sulla società giapponese di oggi: «Ci sono valori belli nella nostra cultura – spiega -. Per esempio: quando c’è un’emergenza o una catastrofe naturale tutti si fanno in quattro per aiutare, davvero si sperimenta un’unità profonda. Ma anche al di là di questi momenti in generale si ha una percezione di sé in rapporto agli altri. Però oggi si avvertono anche i limiti. Qui al tempio tante persone vengono per essere ascoltate nelle loro difficoltà. Ma è importante chiedere loro anche: che cosa vuoi fare? Come vuoi essere? Oggi frequenti un buon asilo, vai a una buona scuola, ti laurei in un’università che ti immette nel mondo del lavoro, ma tutto questo ti garantisce la felicità? La nostra preoccupazione principale deve essere la formazione dell’uomo vero, della persona nella sua integrità: non siamo solo pezzi della società, ciascuno è importante per se stesso. In Giappone dobbiamo tornare a pensare a un’immagine desiderabile di persona e anche di questo nostro Paese».