C’è ancora bisogno di scoprirsi fratelli

EDITORIALE
Partiamo allora dal costruire, dal desiderare, una vera fraternità in Cristo tra noi che ci diciamo seguaci di Gesù, perché questa fraternità non potrà che straboccare dagli argini delle nostre comunità

Da qualche settimana Papa Francesco ci ha consegnato la sua ultima enciclica Fratelli tutti, 140 pagine dense di una fraternità tutta da costruire, come si legge nelle pagine seguenti. La rabbia dei neri in America viene spiegata da monsignor Fabre, del Comitato contro il razzismo della Conferenza episcopale Usa. Che ci sia bisogno di questo ente a quasi 60 anni dal discorso di Martin Luther King fa capire quanta poca strada sia stata fatta e quanto ci sia bisogno di una fraternità vera in ogni angolo del mondo. La realtà di una provincia del Mozambico stretta nella morsa del jihad, quella del Libano ostaggio di una grave crisi, la fatica dei popoli indigeni del Messico a essere considerati parte integrante del Paese dicono che le parole del Santo Padre non cadono a caso in questo momento storico.

Serve tornare a una Chiesa che riconosca la fraternità tra i propri membri come «una dimensione fondamentale della comunità dei discepoli di Gesù», come dice il teologo Roberto Repole. Non possiamo non domandarci dove siamo noi, singoli cristiani, comunità, Chiese diocesane e nazionali rispetto al tema della fraternità tra di noi e con tutti coloro che ci vivono accanto.

Nei miei anni di esperienza cambogiana, una delle fatiche più grosse che ho vissuto come pastore – e sicuramente quella principale della Chiesa locale – è stata la convivenza tra cattolici cambogiani e vietnamiti. Due popoli che si sono sempre combattuti e considerati vicini indesiderati, se non addirittura nemici. Una storia così sofferta e radicata nei secoli non è stata vinta da decenni di evangelizzazione. Ancora oggi celebrare l’Eucaristia domenicale alla presenza di entrambe le etnie è cosa complessa. Ogni attenzione della Chiesa verso le situazioni di povertà dei cattolici vietnamiti fa sorgere lamentele tra quelli cambogiani e viceversa. Catechesi e omelie tese a convincerli a riconoscersi fratelli nell’unico Signore Gesù sono spesso fallite. Una sola cosa ha fatto superare questa divisione: l’amicizia che spesso nasceva nei nostri ostelli per studenti. Trovarsi a vivere insieme il quotidiano, studiando e cucinando, ha fatto scoprire a molti di questi giovani un’amicizia che ha scavalcato dissapori secolari. E cos’è questo legame se non la fraternità in atto, la sua più alta espressione? Così i ragazzi hanno capito che essa può essere vissuta dovunque e con chiunque.

Siamo cristiani che vivono una vera amicizia con Cristo, membra del Suo corpo, per questo chiamati alla fraternità tra di noi perché il corpo non può respingere una parte di sé. Ma un corpo non può vivere solo, ha bisogno dell’altro per poter dare senso al suo esistere, così questa chiamata alla fraternità diventa il luogo della Chiesa in uscita di Papa Francesco. Una Chiesa che per poter vivere ha bisogno di entrare in relazione con l’altro, anche chi non è cristiano.

Partiamo allora dal costruire, dal desiderare, una vera fraternità in Cristo tra noi che ci diciamo seguaci di Gesù, perché questa fraternità non potrà che straboccare dagli argini delle nostre comunità per contagiare chi non ne fa parte. In tempi di Coronavirus un contagio positivo non può che farci del bene.