Cabo Delgado nella morsa del jihad

Cabo Delgado nella morsa del jihad

La provincia più settentrionale del Mozambico deve fare i conti con attacchi islamisti sempre più devastanti. Che nascondono però molti interessi economici. Parla il vescovo di Pemba, mons. Luiz Lisboa

Ha ricevuto minacce di morte, ma anche una telefonata personale di Papa Francesco. E una visita del presidente del Mozambico Filipe Nyusi. Monsignor Luiz Lisboa, 64 anni, missionario brasiliano passionista e vescovo di Pemba, si è trovato in questi mesi nell’occhio del ciclone. Questa volta però non si tratta dell’ennesimo evento climatico catastrofico. Ma della furia dei miliziani jihadisti che con armi e mezzi sempre più sofisticati e attacchi sempre meglio organizzati, stanno mettendo a ferro e fuoco la provincia settentrionale di Cabo Delgado.

Le loro incursioni violente, cominciate nel 2017, hanno già provocato più di un migliaio di morti e oltre 300 mila sfollati. Lo scorso agosto i miliziani sono arrivati a occupare la cittadina di Mocimboa da Praia, dove è stata data alle fiamme anche la chiesa locale, oltre alla scuola secondaria, l’ospedale distrettuale e decine di case, negozi e automobili. E proprio qui hanno rapito due religiose brasiliane della congregazione delle Suore di san Giuseppe di Chambéry, Inês ed Eliane, presenti dal 2003 in questa cittadina, dove avevano aperto diverse scuole materne e un centro sociale. Tenute in ostaggio per 24 giorni, sono state liberate il 6 settembre. Insomma, un’escalation di violenza che le forze dell’ordine e i militari mozambicani mandati sul posto non sono riusciti in nessun modo a contrastare.

E proprio per aver dato voce alla popolazione umiliata e abbandonata a se stessa il vescovo Lisboa è finito dentro il fuoco incrociato di una violenta campagna di stampa scatenata da un gruppo mediatico vicino al partito al potere: un’ondata di fango aggressiva e diffamatoria che ha suscitato pesanti minacce – anche di morte – che per fortuna non si sono concretizzate in atti sconsiderati.

«Si era creato un clima molto brutto – conferma monsignor Lisboa dal suo episcopio di Pemba -. Certa stampa non ammette che si osi criticare il governo. Dopo la visita del presidente Nyusi la situazione si è calmata. Ho potuto spiegargli il lavoro che la Chiesa svolge sul campo e la collaborazione che portiamo avanti con lo Stato in vari ambiti, dalla sanità all’istruzione all’assistenza sociale. E ho potuto anche dire che la Chiesa è essa stessa vittima di questi attacchi che hanno provocato la distruzione e il saccheggio di varie strutture ed edifici».

Oltre a Mocimboa, infatti, già lo scorso aprile, era stata assalita la missione di Nangololo, dove sono state distrutte le abitazioni dei missionari di Nostra Signora di Salette ed è stata danneggiata una delle chiese più antiche di Cabo Delgado. Mentre i missionari sono riusciti a fuggire e a rifugiarsi a Pemba.

All’indomani della visita a Pemba, il presidente Nyusi ha dovuto ammettere che «il Paese vive un momento in cui si ha bisogno di dialogare». In precedenza, tuttavia, Nyusi aveva accusato quegli «stranieri che scelgono liberamente di vivere in Mozambico, ma che non rispettano il sacrificio di coloro che mantengono in piedi questa giovane patria». Il riferimento era in particolare al vescovo Lisboa e alle sue denunce circa l’inefficacia e gli eccessi delle forze armate. Dopo l’incontro a Pemba, il presidente ha cercato di calmare le acque: «Questo nostro vescovo – ha dichiarato – ha molte informazioni, perché la Chiesa è impiantata sul territorio della provincia».

«Ed è proprio così! – conferma monsignor Luiz, che vive nella provincia di Cabo Delgado da vent’anni e da sette è il vescovo della diocesi -. Abbiamo fatto e stiamo facendo un lavoro molto grande con i pochi mezzi che abbiamo. Innanzitutto forniamo cibo, acqua, vestiti e ripari di fortuna agli sfollati che sono sempre più numerosi. La gente continua a lasciare le proprie case, soprattutto nella parte settentrionale della provincia. Il loro numero aumenta di giorno in giorno. Per questo abbiamo cominciato anche a costruire alcune casette, perché non tutti trovano ospitalità dai parenti che spesso vivono con famiglie numerose in spazi angusti».

La diocesi ha creato anche un team di padri e suore che ha avviato un lavoro psicosociale con gruppi formati al massimo da una quindicina di persone per dare loro la possibilità di raccontare le loro storie e cercare di guarire i loro traumi. «È un aspetto molto importante – conferma il vescovo -. La gente è davvero traumatizzata per le violenze che ha subito e visto. È importante dare un aiuto materiale, ma anche un accompagnamento psicologico e spirituale». Ma come si è arrivati a tanta violenza e disperazione in questa terra di confine a ridosso della Tanzania? «Cabo Delgado è una delle due province più povere e arretrate del Mozambico, con livelli di analfabetismo e malnutrizione molto alti – spiega il vescovo -. Paradossalmente, però, è anche una regione molto ricca di oro, rubini e altre pietre preziose. Inoltre, una decina di anni fa, sono state scoperte riserve molto importanti di gas e petrolio. Purtroppo, la popolazione non beneficia in nulla di queste ricchezze; al contrario, negli ultimi anni è aumentato il livello di povertà e di violenza. Oggi per Cabo Delgado le sue ricchezze rappresentano una vera maledizione!».

È il destino tragico di molte regioni dell’Africa dove le risorse del suolo e del sottosuolo si traducono in indicibili sofferenze per le loro popolazioni. Quanto al Mozambico, secondo alcuni studi, le riserve di gas di Cabo Delgado sono così imponenti da poter trasformare il Paese nel secondo produttore di gas liquefatto al mondo dopo il Qatar. Inoltre, la provincia di Cabo Delgado starebbe diventando anche un crocevia di traffici internazionali di droga. Il che lascia facilmente intuire che dietro la destabilizzazione di questa regione non ci sia solo una guerra di religione. Anzi, interessi diversi ma ugualmente pericolosi si intrecciano proprio in questo angolo d’Africa. Il tutto aggravato da infiltrazioni jihadiste sempre più marcate. Se all’inizio, infatti, gli attacchi avevano una matrice incerta, con il tempo i miliziani hanno mostrato una sempre più evidente connotazione fondamentalista, anche per la presenza di combattenti di altri Paesi e di giovani mozambicani che si sono radicalizzati studiando all’estero.

«In alcuni distretti della provincia – spiega monsignor Lisboa -, la popolazione è a maggioranza musulmana, ma molto pacifica. Non abbiamo mai avuto problemi con la gente e ci sono buone relazioni con i leader». I gruppi fondamentalisti sono un fenomeno relativamente recente. All’origine ci sarebbero alcuni miliziani originari proprio di Mocimboa da Praia, il cui gruppo denominato al Sunna prendeva di mira soprattutto obiettivi governativi. Col tempo, però, il gruppo sarebbe stato rinforzato dalla presenza di jihadisti provenienti da altri Paesi come la Tanzania e la Somalia. Attual­men­te si farebbero chiamare al Shabaab, come l’omonimo gruppo terroristico somalo, con cui però non avrebbero alcun legame. Dall’ottobre 2017 si sono moltiplicati gli attacchi a obiettivi civili e anche della Chiesa.

«I missionari sono rimasti sul posto sino a quando hanno potuto», dice il vescovo, che ha dovuto chiedere a tutti di ritirarsi dalle zone interessate dagli assalti. In diocesi, ci sono diversi preti e suore locali e molti seminaristi. Ma c’è ancora un folto gruppo di missionari e missionarie di circa 20 Paesi (anche africani). Il timore è che vengano rapiti per ottenere un riscatto, come successo con altri stranieri in altre parti del Paese. Cosa, però, che non è accaduta con le due religiose sequestrate lo scorso agosto, che sono state liberate probabilmente perché difficili da “gestire” nell’imminenza di un attacco. Nel corso di tutto il 2020, il gruppo jihadista ha mostrato un’inedita capacità di compiere attacchi e attentati più mirati e devastanti. Quello a Quissanga, lo scorso maggio – dove è stata occupata la caserma e issata la bandiera dallo Stato islamico – è stato in qualche modo “riconosciuto” dallo stesso Isis. «Purtroppo – spiega il vescovo – continuano a reclutare giovani locali, offrendo denaro e una sorta di “impiego”. Poi però questi ragazzi si ritrovano a fare la guerra. Il problema qui è che i giovani sono in gran parte disoccupati e non hanno prospettive di futuro. Occorrerebbe creare corsi di studio professionalizzanti e opportunità di impiego. È un tema molto importante e urgente». A questo proposito monsignor Lisboa ricorda la visita di Papa Francesco nel settembre dello scorso anno e la particolare attenzione che aveva riservato proprio ai giovani, spronandoli a farsi carico in prima persona delle sfide contenute nel motto della sua visita: “Speranza, riconciliazione e pace”.

«È stata un’occasione molto importante per noi – dice il vescovo -. E ha creato una vicinanza che continua ancora oggi. Papa Francesco ha parlato in più occasioni della crisi umanitaria di Cabo Delgado. E questo ha permesso di dare una visibilità internazionale al dramma che stiamo vivendo qui e di suscitare anche il sostegno concreto di alcune Caritas nel mondo. Anche le Chiese dell’Africa australe ci sono vicine sia con i loro documenti sia con la loro solidarietà concreta».

Grande preoccupazione per la situazione di Cabo Delgado è stata espressa anche dai 16 Paesi della Southern African Develop­ment Community (Sadc), che auspicano un «coordinamento delle azioni per combattere il terrorismo che rappresenta una grave minaccia per la nostra regione». Il timore è che il fenomeno che oggi sembra confinato nel Nord del Mozambico possa diffondersi in tutta l’Africa meridionale. Intanto, un allarme concreto e imminente riguarda proprio la città di Pemba, dove risiede il vescovo. Nelle scorse settimane, infatti, sono state ritrovate armi pesanti e uniformi. Secondo alcuni analisti potrebbe essere il segno che i terroristi starebbero preparando un attacco, anche se finora non parrebbero sufficientemente strutturati e organizzati per affrontare una guerriglia in territorio urbano. Anche i vescovi della Provincia ecclesiastica di Nampula erano intervenuti negli scorsi mesi per stigmatizzare l’aggravarsi del conflitto. E non solo: «La guerra cominciata dall’ottobre del 2017 si sta diffondendo in tutta la provincia e con essa molte altre forme di violenza e violazione dei diritti umani, causando grandi sofferenze alle popolazioni. E come se ciò non bastasse, la provincia di Cabo Delgado è diventata, in Mozambico, anche l’epicentro della pandemia di Covid-19».