La rabbia dei neri divide l’America

La rabbia dei neri divide l’America

Gli Stati Uniti arrivano alle presidenziali lacerati sulla questione razziale: «Oggi tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma il modo in cui guardiamo l’altro non è ancora cambiato», racconta monsignor Shelton Fabre, pastore di una diocesi in Louisiana, che guida il Comitato dei vescovi Usa contro il razzismo

Da una parte i cittadini esasperati dai frequenti abusi delle forze dell’ordine ai danni di afroamericani, dall’altra quelli spaventati dalla rabbia dei neri, contro la quale chiedono il pugno di ferro. Dopo un’estate e un autunno infiammati dalle proteste del movimento Black lives matter, pesantemente provata dagli effetti della pandemia di Coronavirus – che ha colpito in modo sproporzionato la comunità nera – la società americana si presenta al voto per le presidenziali del 3 novembre quanto mai lacerata al suo interno.

A 57 anni dal famoso discorso di Martin Luther King, “I have a dream”, negli Stati Uniti la “questione razziale” resta purtroppo di assoluta attualità. Le conquiste del movimento per i diritti civili, i nuovi spazi occupati nella società da tanti protagonisti che hanno saputo abbattere le barriere etniche aprendo orizzonti inediti, perfino l’elezione del primo presidente afroamericano non sono stati sufficienti per riappacificare l’America con la sua identità plurale. E per relegare finalmente nel passato una storia di segregazione e ingiustizia che avvelena ancora il presente.

Tanto che, di fronte al video scioccante di George Floyd soffocato a morte dalla polizia a Minneapolis, l’arcivescovo di Washington, il neo-cardinale afroamericano Wilton Gregory, ha dichiarato che quelle scene gli avevano ricordato di quando, nel 1955, i suoi genitori lo avevano portato a vedere il corpo di Emmet Till, un quattordicenne nero linciato e mutilato in Mississippi perché accusato di avere fatto un apprezzamento a una donna bianca, e il cui funerale a Chicago, con la bara aperta, aveva sconvolto l’opinione pubblica.

La Chiesa cattolica americana, in questi anni e negli ultimi mesi, non ha cessato di alzare la voce contro gli abusi e di esortare i fedeli a «unirsi agli altri nel sostenere e promuovere politiche a tutti i livelli che combattano il razzismo e i suoi effetti nelle nostre istituzioni civiche e sociali», come sottolinea la lettera pastorale “Open Wide our Hearts” della Conferenza episcopale statunitense. E non mancano, alla base, i cattolici che si sono attivati per rispondere a questa esortazione: veglie di preghiera, marce, iniziative di sensibilizzazione nelle parrocchie sono state organizzate in diverse città. A metterle in rete è nato il gruppo “Black lives are sacred”, “Le vite dei neri sono sacre”, che punta a offrire un contributo alla strategia pastorale delle diocesi su un tema tanto sensibile quanto presente per secoli anche all’interno della Chiesa stessa.

Basti pensare ai casi di comunità che rifiutavano il ministero di sacerdoti o diaconi neri, o all’uso, comune ancora negli anni Quaranta nelle parrocchie urbane, di costringere i fedeli di colore a sedersi nei banchi più in fondo delle chiese e avvicinarsi per ultimi all’altare per ricevere la Comunione. «Il razzismo non è un fatto del passato ma un pericolo reale e presente: i neri hanno paura, sentono che le loro voci non sono ascoltate e noi non stiamo facendo abbastanza», afferma monsignor Shelton Fabre, vescovo di Houma-Thibodaux (Loui­siana) e presidente del Comitato contro il razzismo della Conferenza episcopale degli Stati Uniti.

«Non possiamo chiudere gli occhi: l’indifferenza non è un’opzione», aggiunge il pastore afroa­mericano, nato nel 1963 nella cittadina di New Roads, in Louisiana.
Chiudere gli occhi, d’altra parte, sarebbe difficile davanti a dati demografici inequivocabili, come il divario ancora massiccio nel grado di istruzione o nell’accesso alle cure sanitarie (e quindi nell’aspettativa di vita) che corre sulla linea del colore della pelle. O come il numero sproporzionato di disoccupati, di detenuti e di morti ammazzati nella popolazione nera.

Monsignor Fabre, perché la questione razziale è ancora così attuale negli Stati Uniti?
«In questi decenni abbiamo compiuto passi importanti sul fronte delle leggi che garantiscono l’uguaglianza di tutti i cittadini, ma non ci siamo resi conto che il razzismo è anche una questione morale, spirituale, che ha a che fare con la percezione che abbiamo degli altri. L’unico modo per combattere questa piaga è imparare a vedere il valore intrinseco di ogni persona e noi, in quanto cristiani, dobbiamo essere in prima linea nel ricordare che tutte le vite hanno la stessa dignità, data da Dio. L’America, come Paese, deve ancora compiere questo passo. E questo vale per le grandi città come per i piccoli centri rurali, per le aree ricche come per quelle più disagiate: non ci sono contesti immuni dal razzismo, che magari assume forme diverse ma è presente dappertutto.«

Qual è stata la reazione della base cattolica alle manifestazioni legate al movimento Black lives matter?
»La mia esperienza è che le proteste pacifiche sono state capite e hanno generato anche una certa empatia in buona parte della popolazione cattolica, che si è lasciata provocare e si è dimostrata aperta a discutere di un tema scomodo come quello del razzismo. D’altra parte, la battaglia per la dignità di tutti ha molto a che fare con il rispetto della sacralità della vita al centro dell’insegnamento della Chiesa. La gente, invece, comprensibilmente ha reagito molto male alle manifestazioni violente e ai vandalismi: la sfida quindi è separare chiaramente le giuste rivendicazioni dalla violenza e dall’illegalità, per non permettere che queste ultime distolgano l’attenzione da ciò che siamo chiamati a fare».

Come opera concretamente la Chiesa per portare avanti quest’istanza di giustizia e uguaglianza?
«Abbiamo diversi organismi dedicati, a vari livelli. Il Con­gres­so nazionale dei cattolici neri, che riunisce organizzazioni di cattolici afroamericani, ogni cinque anni stabilisce un’agenda per l’evangelizzazione, ma anche il benessere, dei fedeli di colore, affinché crescano nella partecipazione a pieno titolo all’interno della Chiesa e della società. C’è poi il Caucus nazionale del clero cattolico nero, costituito da sacerdoti e religiosi, mentre il Comitato contro il razzismo della Conferenza episcopale, che presiedo, supporta i singoli vescovi nella loro azione pastorale: offriamo materiale formativo e informativo per il catechismo, linee guida per le scuole, consulenza per gli editori di libri per bambini…».

Un’opera soprattutto educativa, in un contesto in cui la politica, al contrario, su questi temi fa spesso appello alla pancia degli elettori.
«La politica è fatta di uomini, che come tali sono soggetti a errori. Ciò che più mi sembra mancare, in questo momento, è la capacità da parte di chi ha responsabilità pubbliche di confrontarsi senza aggressività, di parlarsi davvero, con lo stile di apertura raccomandato da Papa Francesco. Vedo invece una grossa difficoltà a sostenere discussioni oneste: gli interlocutori restano trincerati dietro alle loro posizioni agli antipodi, c’è un trionfo degli opposti estremismi che non porta da nessuna parte».

Il razzismo ha segnato anche la storia della Chiesa: oggi le comunità hanno operato una riflessione sulle proprie mancanze?
«Gli episodi gravi a cui abbiamo assistito in questi mesi, uniti al fatto che le nostre parrocchie sono sempre più miste dal punto di vista etnico, hanno spinto i fedeli a compiere una riflessione in questo senso, sebbene sia un impegno ancora in corso, e non so se il razzismo potrà mai dirsi definitivamente estinto. Vorrei però notare anche che la pari dignità di ogni persona non significa l’assenza di differenze: la pluralità interna è una ricchezza e non va cancellata! La Chiesa include diverse spiritualità: spesso le parrocchie afroamericane esprimono la fede con una liturgia e uno stile specifici, ma questo non vuol dire che siano dei ghetti; capita anzi che siano frequentate anche da fedeli bianchi che apprezzano questa specificità. Così come può succedere che cristiani di colore preferiscano liturgie dal profilo più basso, come quelle a cui sono più abituate le parrocchie a maggioranza bianca».

Come ha vissuto personalmente la questione razziale in qualità di sacerdote e ora vescovo afroamericano?
«Non posso negare che, da prete, ho avuto anche esperienze negative per il colore della mia pelle, ma non sono state preponderanti. La mia Chiesa mi ha in qualche modo ferito? Sì, è capitato, ma io la amo e voglio che tutti insieme, al suo interno, lavoriamo per superare lo stigma non solo verso i neri ma verso tutte le comunità diverse che la compongono. Negli Stati Uniti ci sono sempre più fedeli latinoamericani, o asiatici, e tutti loro hanno un contributo da offrire alla nostra comune famiglia. In questo momento oggettivamente convulso, oso essere speranzoso, perché penso che possa trattarsi di un’occasione significativa per fare un salto di qualità sia nella discussione nazionale, sia all’interno dei nostri cuori, verso la consapevolezza della sacralità di ogni vita umana».

 

BLACK LIVES MATTER, ATTIVISTI PER I DIRITTI DEI NEI

Il movimento Black lives matter (letteralmente “Le vite dei neri contano”) nacque nel 2013 in seguito all’assoluzione di George Zimmerman che il 26 febbraio 2012, a Sanford (Florida), aveva sparato al diciassettenne afroamericano Trayvon Martin, uccidendolo. Il movimento ottenne visibilità grazie alle proteste di strada in seguito alla morte di altri due cittadini neri entrambi uccisi da agenti di polizia nel 2014: Michael Brown, a Ferguson, e Eric Garner, a New York. In questi anni le mobilitazioni si sono riaccese periodicamente in occasione di altri gravi episodi di abusi da parte delle forze dell’ordine ai danni di afroamericani, a volte degenerando in proteste violente. La scorsa estate la rabbia dei neri si è riaccesa dopo il caso sconvolgente di George Floyd, soffocato a morte dalla polizia a Minneapolis, e per il grave ferimento di Jacob Blake, rimasto infermo a causa dei colpi alla schiena esplosi da alcuni agenti, in Wisconsin. A fine settembre, poi, il verdetto per la morte della giovane Breonna Taylor in Kentucky, durante una perquisizione e per la quale nessun poliziotto è stato incriminato, ha provocato nuove rivolte.

 

UN SANTO AFROAMERICANO

Potrebbe presto diventare beato Augustus Tolton, primo sacerdote cat­tolico afroamericano. Nato a Brush Creek (Mis­souri) nel 1854, Augustus sentì la vocazione a 9 anni quando frequentava una scuola cattolica a Quincy (Illinois), dove sua madre si era trasferita per fuggire dalla schiavitù con gli altri due figli. Respinto da tutti i seminari degli Stati Uniti, si trasferì a Roma per gli studi. Ordinato sacerdote a San Giovanni in Laterano nel 1886, intendeva andare in missione in Africa ma fu destinato agli Usa. A Chicago, nel 1889, cominciò il suo ministero tra i cattolici neri in un negozio adibito a chiesa. Negli anni seguenti, grazie al supporto della futura santa Katharine Drexel (fondatrice di istituzioni educative per neri e amerindi), fu costruita una vera chiesa e la parrocchia si sviluppò. Le virtù eroiche del Servo di Dio padre Tol­ton, morto nel 1897, sono state riconosciute a giugno dell’anno scorso.