La mia Oceania

La mia Oceania

Tra i primi missionari del Pime a tornare in Papua Nuova Guinea nel 1981, padre Cesare Bonivento è stato vescovo a Vanimo sul delicato confine con l’Indonesia. «Giovanni Paolo II mi disse: si ricordi dei profughi»

 

Quarant’anni fa si apprestava a partire per la Papua Nuova Guinea con destinazione l’isola di Goode­nough, nel cuore dell’Oceania. Poi – dal 1992 e per 26 anni – in questa terra è stato vescovo a Vanimo, sul difficile confine con la Papua Occidentale, la parte controllata dall’Indonesia. Monsignor Cesare Bonivento – missionario del Pime originario di Chioggia – ha vissuto in prima persona tante pagine della storia recente del Paese al centro quest’anno della campagna “Sorella Papua Nuova Guinea”. A partire dal nuovo inizio dell’Istituto nel 1981, a più di un secolo dal martirio di padre Giovanni Battista Mazzucconi.

Monsignor Bonivento, con padre Giulio Schiavi a inizio anni Ottanta siete stati i primi missionari del Pime a tornare in Papua Nuova Guinea. Che cosa rappresentò quella partenza?

«Padre Schiavi era arrivato sei mesi prima di me, io giunsi in Papua Nuova Guinea a inizio luglio 1981. Lui era già un veterano della missione: veniva dal Bangladesh dove era stato 17 anni. Io ero alla prima esperienza: ero stato ordinato sacerdote nel 1965, ma i superiori mi avevano tenuto in Italia a lavorare con padre Gheddo a Mondo e Missione, a studiare e a svolgere altri servizi. Aspettavo con impazienza di partire. Padre Schiavi è stato il mio maestro in missione, mi ha insegnato a rapportarmi con la gente. Insieme abbiamo potuto beneficiare dell’appoggio di tanti amici di Lecco, la terra di Mazzucconi, che vivevano con particolare emozione questo ritorno del Pime in Papua Nuova Guinea».

I primi dieci anni li ha trascorsi nella missione di Watuluma sull’isola di Goodenough: che cosa le è rimasto di quell’esperienza?

«Il vescovo di Alotau, Desmond Moore, ci mandò a Goodenough. A Bolu Bolu, il centro amministrativo, una missione era stata fondata nel 1950, ma non c’era nemmeno una chiesa. Mancava tutto, però per noi era un privilegio poter essere lì. Presto ci  siamo accorti che una parte dell’isola non era assistita sufficientemente, così io mi sono spostato a Watuluma dove sono stato per dieci anni mentre padre Schiavi è rimasto a Bolu Bolu. C’era da imparare anzitutto la lingua locale, il bwaidoka, con tanta umiltà perché sai che non lo parlerai mai come loro, ma la gente apprezza il fatto che ci provi. Poi abbiamo cominciato a costruire le strutture: la scuola tecnica, l’ospedale Città di Lecco… La mia fortuna è stata l’arrivo delle Missionarie dell’Immacolata; un prete può anche pensare di cambiare il mondo, ma senza le suore l’evangelizzazione nel mondo della famiglia non arriva».

Da Watuluma raggiungeva anche altre isole più lontane…

«Abbiamo scoperto che a un centinaio di chilometri di mare c’erano delle isole abbandonate da tutti. Sono andato a visitarle e la barca là si è rotta; siamo rimasti bloccati, pensavano tutti che fossimo naufragati. Quelle isole di Kawa e Koni, con il loro mondo rimasto immutato da millenni, sono diventate cattoliche; e, anche lì, sono state le suore a far crescere la comunità, prima di tutto facendo venire a scuola a Watuluma i ragazzi e le ragazze. Sono stati gli anni più belli del mio sacerdozio. Ma sono stato anche molto fortunato, mi hanno aiutato laici speciali come fratel Renato Doneda, che da tecnico ha fatto miracoli, Severino Mapelli di Lecco, Lino Casali di Lodi e tanti altri».

In quegli anni vi fu anche la prima visita di Giovanni Paolo II in Papua Nuova Guinea.

«Venne due volte. La prima fu nel 1984, l’anno in cui a Roma è stato proclamato beato Maz­zucconi. L’entusiasmo fu grande in tutta la Papua Nuova Guinea. Anche i protestanti volevano venire a Port Moresby per incontrare il Papa: ho dovuto organizzare io la barca anche per loro. Ma la visita per me più importante è stata quella del 1995, quando Giovanni Paolo II venne per beatificare il catechista locale Peter To Rot. Ero vescovo a Vanimo da appena tre anni; quando stava per tornare a Roma, all’aeroporto, ci salutò uno per uno. Sentendomi nominare Vanimo si deve essere ricordato del mio predecessore, monsignor John Etheridge, che aveva accolto 15 mila profughi in fuga dalla Papua Occidentale. Così è tornato indietro e mi ha detto: “Eccellenza, le raccomando tanto i rifugiati”. Un messaggio che non ho mai dimenticato».

Perché furono così importanti queste parole?

«Vanimo si trova proprio sul confine con la Papua Oc­cidentale. La situazione è delicata: la popolazione locale, che vive sui monti, non ha mai accettato l’annessione da parte dell’Indonesia. A quel tempo era un periodo tranquillo, ma di tanto in tanto capitavano scontri. Così il 1° dicembre 2000, durante una di queste crisi, sono arrivati altri rifugiati. Erano ammassati al confine, nella terra di nessuno, pieni di paura, senza né cibo né aiuto. Erano più di 500 e non potevano andare da nessuna parte perché la Papua Nuova Guinea non li voleva mentre in Indonesia avrebbero subito ritorsioni. Li ho visti e mi sono detto: non importa la politica, sono esseri umani e bisogna aiutarli. Li ho portati in una scuola della diocesi e li abbiamo ospitati per cinque anni. Ho dovuto scrivere una lettera aperta al primo ministro che voleva mandarli via, ma alla fine sono rimasti. La cosa ridicola è che in realtà la loro presenza si è rivelata un grande beneficio per la città perché erano agricoltori di primissima qualità: coltivavano prodotti che tutti volevano, rendendo i prezzi più abbordabili. E quando il governo si è deciso a ricollocarli in un’altra zona del Paese hanno sofferto tutti».

Su quel confine restano ancora ferite profonde da sanare?

«La situazione resta difficile: anche recentemente vi sono stati scontri. Ma io ho cercato sempre di guardare solo alla dignità delle persone. Alla fine tanto la Papua Nuova Guinea quanto il capo di Stato maggiore indonesiano mi hanno dato un riconoscimento per il contributo offerto dalla Chiesa».

Come ha visto cambiare la Papua Nuova Guinea in questi quasi quarant’anni?

«La Papua non è che sia cambiata molto. Port Moresby oggi è una città di 500 mila abitanti, ma le baraccopoli restano tante. L’economia in buona parte è in mano a imprese straniere che controllano le ricchezze minerarie. La scuola è migliorata un po’, grazie anche al contributo delle Chiese; ma il livello dell’inglese insegnato non è più ottimo come qualche anno fa».

La Papua Nuova Guinea è un Paese dall’età media molto giovane: come vede il futuro di questi ragazzi e ragazze?

«Il problema è la mancanza di opportunità. Ci sono le università, ma quando sono preparati questi giovani dove vanno? Bisognerebbe sviluppare più attività al servizio della popolazione locale: l’agricoltura intensiva, l’industria zootecnica, la pesca sono settori che potrebbero dare molto. Altrimenti questi ragazzi possono solo andare in Australia, dove rischiano delle discriminazioni inevitabili».

Lei ha sempre avuto molto a cuore la formazione del clero e dei catechisti: che cosa può insegnare l’esperienza di una Chiesa come quella di Vanimo ai cattolici dell’Occidente?

«Ho fatto quanto ci si propone in tutte le diocesi in missione: far venire più missionari che potevo, iniziare il seminario minore e poi anche quello maggiore. I risultati non sono stati strabilianti, però al termine del mio ministero a Vanimo avevamo più di 30 missionari e un buon numero di seminaristi.Bisogna tener conto, però, che buona parte della struttura diocesana è basata sulla grande collaborazione dei catechisti, il più delle volte sposati. Qualsiasi diocesi missionaria può fare ben poco senza di loro. Sono presenti in ogni angolo del territorio, assicurando a tutte le comunità la continuità della preghiera e dell’istruzione cristiana. Questa esperienza molto comune e molto positiva delle Chiese missionarie potrebbe essere considerata anche da molte Chiese europee che ora soffrono per la scarsità di clero, e sono tentate di risolverla con l’ipotesi davvero problematica dei preti sposati».

Dopo aver lasciato Vanimo lei è ripartito per la missione in India: come vive questa nuova stagione?

«Quando nel 2018 ho passato il testimone a un vescovo locale non potevo restare in Papua Nuova Guinea: sarei stato ingombrante. Così il superiore generale mi ha detto: vai in India. E io sono contentissimo. Sono il direttore spirituale dei seminaristi del Pime a Trichy, dove frequentano il college. Ho più di ottant’anni ma vedo che loro sono contenti. Piuttosto spero che la pandemia che mi ha bloccato qui in Italia finisca presto. Prego il Signore che mi dia la grazia di continuare questo servizio».