Tullio Favali: «La vita è un dono che non possediamo»

Tullio Favali: «La vita è un dono che non possediamo»

Il Seminario del Pime di Monza ha ricordato con il vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla – suo compagno di seminario – i 37 anni dall’uccisione del missionario dell’istituto colpito a morte a Mindanao nel 1985

 

Ieri 11 aprile 2022 ricorreva il 37mo anniversario dell’uccisione di p. Tullio Favali nelle Filippine. Il seminario missionario di Monza, dove p. Tullio è stato alunno dal 1978 al 1981 completando il suo cammino teologico, ha invitato il vescovo di Padova Claudio Cipolla a parlarci di Tullio, suo compagno di seminario a Mantova e affezionato amico. Il vescovo Cipolla ha detto di aver visitato la missione e la tomba di p. Tullio, ricavandone grande significato e ispirazione per la sua missione di presbitero e di vescovo. Il vescovo Claudio ci ha detto che, come vescovo della grande diocesi di Padova, si ispira alle piccole comunità cattoliche visitate nelle Filippine in tema di corresponsabilità dei battezzati e per il cammino di sinodalità.

Il vescovo ha visitato il seminario accompagnato dal diacono padovano don Cristiano Vanin. Il vescovo ha parlato a braccio. Non abbiamo il suo testo. Proponiamo ora una sintesi della vita di Tullio e della sua testimonianza missionaria riprendendo l’intervento che ho preparato e letto al vescovo e ai 60 alunni del seminario.

Tullio Favali è nato a Sacchetta di Sustinente (Mantova) il 10 dicembre 1946. È di una famiglia semplice, il papà muore in un incidente di lavoro quando Tullio ha nove anni. Tullio venne ucciso nelle a La Esperanza, Mindanao, nelle Filippine l’11 aprile 1985. Aveva 38 anni.

Tullio era entrato nel seminario diocesano di Mantova da piccolo. Giunto alla soglia dell’ordinazione -mancavano solo un anno e mezzo- decise di intraprendere un personalissimo percorso di confronto con la vita. Erano gli anni della sua giovinezza, ed erano gli anni 70. È importante capire quei 8 anni in cui egli prestò il servizio militare, scegliendo esplicitamente la rinuncia ad ogni privilegio, e passò da un lavoro all’altro, tutti molto umili, e spesso in condizione di sfruttamento. Tullio vuole condividere la vita della gente e il duro lavoro, ma rifiuta l’ideologia violenta e contestataria allora in voga tra molti giovani aderenti a movimenti estremisti. Non perde la fede, la vive nel modo più semplice e diretto, attivandosi nella sua parrocchia di Sailetto e rifuggendo dalle spiritualità borghesi, emotive ed individualiste.

Tullio parlò di questi anni nella lettera con la quale nel 1978 chiese di essere ammesso al PIME: uno scritto di disarmante sincerità, in cui descrive otto anni di «verifica del problema affettivo, di ricerca di indipendenza e di vita autonoma al di fuori di un ambiente protettivo e poi l’esigenza di concretezza e di azione, l’insofferenza per un lavoro strettamente intellettuale, la paura di incarnare la figura del prete, conscio dei miei limiti, il sentirmi disarmato di fronte a un mondo potente che travolge, non possedere cuor di leone capace di imporsi sugli altri». Tullio ritrova la chiamata ad essere prete di Gesù «la sostanza della mia vita», ad un livello molto più consapevole e maturo, avendo sperimentato la «solidarietà con gli ultimi nel condividere la durezza della vita». È il Tullio che abbiamo conosciuto negli anni del seminario di Monza (1978-1981): un giovane sincero, umile, sereno, maturo e perciò capace davvero di rimettersi in gioco. Di lui ci rimane impresso quel sorriso splendidamente autentico, così in contrasto con le tristi arrabbiature di tanti altri allora.

In missione dal 1984, Tullio trova nell’isola di Mindanao una situazione terribile di oppressione, ingiustizia, violenza e paura. In quel contesto egli vuole essere un prete per la sua gente. Nelle sue lettere Tullio si esprime con una chiarezza insuperabile, ed è giusto lasciare spazio alla sua suggestiva lezione di missione in atto: «La Chiesa è solidale ed alza la voce di protesta, in difesa degli oppressi. Spesso i poveri e gli indifesi trovano unico appoggio e sostegno nella Chiesa, che si muove tra molte difficoltà e con poco risultato, dovendo affrontare un potere troppo forte e corrotto. Siamo dunque un segno di speranza e promotori della giustizia… Il nostro lavoro pastorale si svolge tra la gente di condizioni più umili e il nostro stile di vita tende a uniformarsi allo stile semplice ed essenziale della gente comune. È una scelta di vita, e non solo condizione sofferta e subita. Mi accorgo che la gente si aspetta molto dal prete. Voglio essere più partecipe e coinvolto nel cammino di questo popolo duramente provato dalla sofferenza».

Tullio è un prete che si emoziona: «La prima volta che ho fatto il funerale ad un bambino di pochi mesi, mi sono “immagonato” e a fatica ho terminato la messa, dalla commozione». La vita dura della gente gli insegna molte cose: «La vita e la morte si intrecciano, come esperienza quotidiana e ci danno una concezione più realistica e più vera di noi. Ci ridimensiona dalle nostre pretese e dalle nostre vanaglorie e ci educa al senso del limite e della gratuità. La nostra vita è un dono, che ci è dato da amministrare, ma non da possedere».

Fin dal suo arrivo nell’isola di Mindanao, Tullio s’accorge della tensione in cui vive la gente: uccisioni e scomparsi a causa di una guerra civile iniziata nel 1972. Una “guerra per il possesso delle terre” feroce, crudele, che ha spopolato la regione. Nel 1980 non ci sono più case, tutte distrutte, bruciate. L’esercito e le milizie fanatiche che sostengono il regime attaccano i leader cattolici, inclusi suore e preti, impegnati a difesa dei poveri e delle vittime di ingiustizia, fossero anche musulmani.

La settimana santa del 1985 trascorre ricca di celebrazioni e incontri, a cui i cristiani partecipano con devozione. Finché l’11 aprile, un gruppo paramilitare si raduna sulla strada principale di La Esperanza, una borgata di Tulunan. Sono una cinquantina, armati fino ai denti e guidati da una famiglia criminale: i Manero. Sono ubriachi e violenti. Hanno cartelli in cui accusano padre Peter Geremia (compagno di missione di P. Tullio) e il leader cattolico Rufino Robles di sostenere il comunismo. Quest’ultimo passa di là: gli sparano e Robles, ferito, cerca rifugio in una casa vicina. E manda un messaggio alla missione: «Padre, aiuto, vieni a La Esperanza».

Robles cercava Geremia. Ma lui non c’è. C’è Tullio: è appena rientrato, è solo e senza esitazione prende la moto e corre sul posto. Entra in casa ed esamina il ferito. Poi si sente una nuova sparatoria. Tullio si affaccia alla finestra e vede che i Manero appiccano il fuoco alla sua moto. Esce di casa, nonostante gli altri cerchino di trattenerlo: «A me non faranno niente», dice.

Edilberto Manero lo accoglie in strada con una risata: «Padre – urla – vuoi forse sfidarmi?» Tullio alza entrambe le braccia con le palme protese in segno di resa e di pace. È inerme e indifeso. Manero lo guarda e gli spara. Tullio cade sulle ginocchia: è morto ma continuano a sparargli addosso, ridendo, fischiando, calpestandolo, cantando e ballando. Compiono anche orribili atti di disprezzo del povero corpo.

Tullio fu assassinato da fanatici sostenitori del regime dittatoriale di Marcos, contrari ai preti impegnati per la giustizia. Tullio, noi l’abbiamo conosciuto bene, era totalmente estraneo all’ideologia: era missionario e basta, prete di Gesù per il suo popolo sofferente: «Non mi resta che immergermi in questo mondo e camminare a fianco di questa gente, nella comunione fraterna e condivisione. Il lavoro è tanto e il compito affidatoci è grande: però non siamo soli, un Altro ci sorregge e viene incontro alla nostra debolezza».

Quando nella primavera del 1986 ho scritto la vita di Tullio per la ‘tesina’ del diploma di teologia, ho avuto il privilegio di intervistare la mamma, la sorella e tanti amici di Tullio, tra cui don Claudio Cipolla, oggi vescovo di Padova. Ho potuto leggere tante lettere di Tullio. In una, scritta all’amica Letizia ho trovato questa preghiera, che a Tullio era uscita di getto, segno che era animato da una sincera vita interiore. L’ho scelta per il cartoncino della mia ordinazione sacerdotale, e desidero riproporla ora: c’è molto della bella sensibilità di Tullio e di come viveva la sua vita di missionario:

Dacci o Signore la forza di rinnovare ogni giorno il nostro impegno, dacci il coraggio di continuare nei momenti di oscurità, illumina le nostre menti perché possiamo trovare le vie migliori per arrivare al cuore dei nostri fratelli. Mantienici svegli perché siamo tentati di adagiarci. Dacci la passione per gli altri anche se ciò comporta maggiore sofferenza. Grazie, Signore per questa giornata, per le persone che ho incontrato, per le cose che ho scoperto. Affido a te le mie preoccupazioni e la mia gente, con tutti i suoi problemi. Ti chiedo di poter rispondere alle tue aspettative a quelle della gente.