Yangon oltre le sbarre

Yangon oltre le sbarre

Nel Centro di detenzione minorile di Kaw Hmu, New Humanity cerca di offrire istruzione e formazione professionale ai giovani detenuti. Perché possano un giorno reinserirsi nella società

Il Centro di detenzione minorile Nghet Aw San Boys School si trova nel distretto di Kaw Hmu, nella periferia di Yangon, in Myanmar. Non viene formalmente classificato come un carcere, ma con il termine vocational school, scuola professionale. In effetti, a prima vista, colpisce proprio l’assenza di celle personali, grate, guardie armate e controlli al cancello di ingresso; di fatto, però, è comunque una struttura molto controllata, quasi come un carcere. Questo centro è nato per ospitare ragazzi in età pre-adolescenziale e adolescenziale condannati dal tribunale; attualmente ne ospita  497 con un’età che va dagli otto anni in su. Tra loro sono poco più di 350 quelli inviati per aver commesso crimini che variano da furti di vario genere fino agli omicidi o altre forme di violenza. Tutti gli altri sono ragazzi di strada o con altre problematiche, inviati da altri dipartimenti, tra cui anche un piccolo gruppo affetto da insufficienze mentali. New Humanity è entrata in contatto con questa realtà nel novembre 2016, quando Enrico, psicologo che collabora con l’associazione, è stato invitato a fare uno studio del contesto. Alla prime visite sono immediatamente seguiti alcuni interventi urgenti per migliorare le infrastrutture e, attraverso queste, le condizioni di vita dei ragazzi.

Grazie anche al supporto della Fondazione Pime sono state realizzate in tempi brevi la ristrutturazione dei bagni, l’apertura di un nuovo pozzo e la dotazione di nuovi serbatoi per la raccolta dell’acqua. Questi primi interventi hanno permesso a New Humanity di farsi conoscere, ma anche di capire meglio una realtà che è complessa. La presenza dell’organizzazione è stata accolta bene dal direttore e dallo staff del centro, e questa fiducia si è presto trasformata in disponibilità a collaborare nell’avvio di attività per il bene dei ragazzi. Il dialogo con lo staff e la direzione ha fatto emergere due principali elementi critici su cui lavorare. Il primo è legato alla preparazione del personale. Nella struttura lavorano solo 40 operatori, incluso il direttore; divisi tra funzioni amministrative e lavoro diretto con i ragazzi, si alternano su turni per coprire le 24 ore. Nonostante l’impegno dello staff, il numero è insufficiente a garantire un lavoro che vada oltre la mera sorveglianza. Gli incontri organizzati da Enrico con gli operatori hanno, inoltre, evidenziato come la maggior parte non abbia una formazione specifica per lavorare con i minori, tantomeno con minori fragili e problematici.

La voglia di imparare c’è, ma le possibilità sono poche e il tempo per programmare gli interventi ancora meno. Da questa constatazione è nata l’idea di avviare un percorso di formazione per gli operatori, che ha preso il via già nei primi mesi dello scorso anno. Gli operatori hanno iniziato a studiare i fondamenti essenziali della psicologia dello sviluppo e appreso tecniche per la gestione dei conflitti, oltre ad aver trovato l’opportunità di un confronto e di un supporto psicologico indispensabile per gestire il carico di stress che deriva da un lavoro così delicato.

Il principale problema emerso, però, è stato un altro: la mancanza di una vera proposta educativa per questi giovani. Nonostante il nome del Centro evochi una forte componente educativa, all’interno del riformatorio non esisteva una scuola. Solo un numero limitato di ragazzi può frequentare quella che si trova nel villaggio e coloro che riescono a partecipare a training professionali sono al massimo una cinquantina. Si è dunque deciso di avviare una scuola all’interno del riformatorio. Una realtà educativa che non fosse solo un luogo di apprendimento, dove i ragazzi imparano a leggere e scrivere (competenze comunque indispensabili per un loro futuro reinserimento nella società), ma dove possono iniziare anche un vero percorso di riflessione e di rielaborazione del loro vissuto. Una scuola, quindi, che sia un percorso di riabilitazione. L’inaugurazione è avvenuta nell’aprile del 2017 e oggi sui banchi ci sono già più di cento ragazzi. La mattina è dedicata allo studio delle materie obbligatorie per l’ordinamento del Myanmar (lingua birmana, lingua inglese, matematica e scienze). Nel pomeriggio, invece, vengono organizzate sei diverse attività che vanno dall’ascolto all’arte; ogni ragazzo è libero di scegliere a quale partecipare. «Non stiamo solo insegnando loro a leggere e a scrivere, li stiamo educando ad ascoltare i propri bisogni e i propri sentimenti – spiega una delle insegnanti birmane della scuola -. Il nostro obiettivo è aiutarli a parlare dei propri sentimenti anche più profondi e far loro capire che hanno il diritto di condividere le emozioni. Vogliamo che imparino ad esprimersi e mettere in comune quanto sentono». Non è casuale il fatto che durante le attività del pomeriggio la maggior parte dei ragazzi chieda di parlare a tu per tu con l’insegnante. «Per loro è un’opportunità per condividere sentimenti ed emozioni che hanno tenuto dentro a lungo. Parlano delle loro vite e delle tante difficoltà incontrate».

Con il 2018 è iniziata, infine, un’ulteriore fase del progetto: i primi corsi di formazione professionale. Un’occasione per offrire un’attività anche ai ragazzi che ancora non riescono a frequentare la scuola e facilitare comunque il loro futuro reinserimento nella società. Il 22 gennaio è stato inaugurato il primo corso per elettricisti, a cui seguiranno quelli di falegnameria e lavorazione dei metalli. Complessivamente si prevede di riuscire a formare 150 ragazzi. Il riformatorio, come dice il nome stesso, deve essere un luogo di rieducazione. Questi giovani hanno voglia di cambiare, di costruire un futuro diverso e non chiedono altro che di averne l’opportunità. Ce lo testimoniano le parole di un ragazzo detenuto che da qualche mese frequenta la scuola: «Prima avevo paura di parlare di fronte agli altri. Ora riesco addirittura a stare su un palco; posso parlare a lungo di fronte agli altri e posso anche cantare. Oso fare cose che prima mi spaventavano, cose belle. Adesso posso costruire qualcosa di buono»