Noi, periferie  lontani da chi?

Noi, periferie lontani da chi?

La Guinea Bissau sembra lontanissima dal Vaticano. Ma i gesti e le parole di Francesco stanno lasciando un segno profondo pure lì, mostrando il cammino anche a questa giovane Chiesa d’Africa

da BISSAU

E’ stata una delle sue prime espressioni, che è diventata poi quasi un ritornello nei suoi messaggi, omelie e discorsi. La presi subito come un programma per la nostra piccola parrocchia di Catió, nel Sud della Guinea Bissau. La scrissi su un cartellone e la incollai sulla parete all’interno della chiesa. Nessuno la notò entrando e la Messa della domenica continuò come sempre fino al momento della benedizione finale. Fu in quel momento che chiesi a tutti i presenti di girarsi e di fissare la porta della chiesa. Il cartellone con la scritta “Uma Igreja em saida” – “Una Chiesa in uscita” – si trovava proprio là sopra. Così siamo entrati nel pontificato di Papa Francesco, io da giovane parroco e la piccola comunità di Catió, una “periferia” del mondo per dirla con lui.

Ed è proprio da qui che quelle parole sembrano avere una luce speciale. Non importa quanto grande sia la comunità, quanta storia e tradizione abbia alle spalle, quante risorse possa avere. La Chiesa, in qualunque angolo del mondo, è tale se ha il coraggio di uscire. È così che interpreto l’appello di Papa Francesco e ne colgo l’originalità. Le stesse Chiese di “periferia” sono interpellate a guardare fuori e a non sentirsi solo destinatarie dell’annuncio e – proprio perché sono messe “al centro” – devono accorgersi di altre periferie. Ne va della genuinità dell’esperienza cristiana. È così che una Chiesa si mantiene giovane, perché sempre si rigenera.

A partire da quella domenica quella scritta è diventata un promemoria per tutti quanti partecipano all’eucaristia e tornano nelle proprie case e nei propri villaggi. E per me sacerdote, celebrare con quelle parole visibili là in fondo alla chiesa, è trovare ogni volta il criterio giusto per l’annuncio della Parola e il senso dello spezzare il pane. La Buona Notizia è infatti sempre da condividere e quel Pane è ogni volta «dato per molti».

E uscendo dalla chiesa, come accompagnare la comunità in questo cammino di esodo? Mi dicevo: «È stando davanti, guidando come pastore che conduce il gregge». Ecco invece un’altra sorpresa di Papa Francesco, che mi ha obbligato a ripensarmi. Nell’Evangelii Gaudium, parlando della missione del pastore dice che sì, «a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo», ma aggiunge poi che «altre volte, invece, starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa» e addirittura conclude che «in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e soprattutto perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade». È su questa immagine che ho rivisto il mio stile di missionario, collocandomi dentro un dinamismo di servizio in cui il gregge determina la posizione del pastore. Non solo. Il gregge è fonte di ispirazione e di sostegno per lo stesso pastore. E può indicargli la strada giusta.

Ricordo, a questo proposito, le facce curiose della gente quando la settimana seguente all’elezione di Papa Francesco ho proiettato in missione la registrazione youtube da San Pietro presa da una televisione portoghese.

Qui il Conclave e l’annuncio dell’Habemus Papam erano arrivati, infatti, solo attraverso Radio Sol Mansi e, anche se un po’ in ritardo, la comunità voleva vedere e conoscere questo nuovo Papa «venuto dalla fine del mondo» e ricevere la prima benedizione. Ebbene, che cosa colpì soprattutto la giovane audience guineana? Il momento in cui Papa Francesco alza le mani e, prima di benedire il popolo, si inchina per chiedere la benedizione del popolo su di lui. Un leader, un anziano, che si inchina nel gesto di “pro-tendersi” verso il gregge, qui in Africa è novità.

E si pro-tende fino ai piedi dei giovani del carcere minorile alle porte di Roma, pochi giorni dopo per il rito della lavanda dei piedi. Non in San Giovanni in Laterano ma in carcere, non solo a cristiani, ma anche a musulmani. Gesti profetici che hanno più forza delle parole. Gesti da taluni criticati, ma di per sé pieni di tanta luce. E di riflesso nasce in me la voglia di provare a “riprodurli” nel nostro piccolo e a nostro modo anche qui, in questa terra, dove il messaggio si trasmette meglio con i segni che con le parole.

Nascono così le prime iniziative di incontro e di visita ai leader della comunità islamica locale, gli inviti reciproci per feste e ricorrenze delle nostre comunità, “sederci” insieme e condividere la stessa tavola e poi essere presenti insieme nei momenti di crisi e di turbolenza politica per pregare. È sulla scia di questo “approssimarsi” che nasce la voglia di conoscersi più da vicino e di provare a dialogare. Sono nate poi giornate di studio su temi comuni quali la fede, la Scrittura, la legge, dove dare tempo all’ascolto reciproco per far crescere il rispetto e la stima, pur nella diversità.

Scrivevo prima del linguaggio di Papa Francesco e della forza dei gesti. Come non ricordare la decisione di anticipare l’apertura dell’Anno giubilare proprio in terra africana, a Bangui, nella Repubblica Centrafricana. Un “fuori programma” per molti, ma per Papa Francesco un appuntamento irrinunciabile e un chiaro messaggio, più del rispetto dei protocolli. Un calendario, quello del Pontefice, che si riempie spesso di imprevisti e di visite inattese, un po’ come avviene in molti casi qui da noi e nelle terre di missione.

Infine, non posso non accennare all’efficacia delle sue stesse parole e del suo vocabolario più semplice e diretto. Ricordo, ad esempio, il lavoro svolto per la Commissione diocesana della catechesi in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia. Il manuale preparato – e ristampato per ben tre volte – conteneva le parole di Papa Francesco e la presentazione delle opere di misericordia. Sembra un dettaglio da poco quello del linguaggio, ma per un missionario che tante volte è chiamato a tradurre testi e omelie del Pontefice in lingua locale, l’impegno diventa meno gravoso e il messaggio diventa più accessibile e alla portata di tutti.

In Africa si dice: «Dona la vita chi mostra il cammino». Ad accompagnare questo proverbio c’è l’immagine dell’anziano seduto che consiglia il giovane e che riversa su di lui la ricchezza del sapere circa l’arte del vivere. Anche Papa Francesco, con le sue tante “sorprese”, sta mostrando con gesti e parole il cammino a noi e alla nostra giovane Chiesa d’Africa.

padre Fabio Motta è missionario del Pime a Bissau