Ma l’Iraq è ancora casa nostra

Ma l’Iraq è ancora casa nostra

Nell’estate del 2014 l’Isis invase la piana di Ninive, culla del cristianesimo iracheno. Ora le famiglie cominciano a tornare, affrontando sfide enormi. Parla l’arcivescovo di Baghdad monsignor Sleiman

 

Era l’estate del 2014 quando i tagliagole dell’Isis, nella loro marcia verso il Nord dell’Iraq, raggiunsero la piana di Ninive, culla del cristianesimo locale, e ne gettarono villaggi e cittadine nel terrore più assoluto. Nella notte tra il 6 e il 7 agosto, oltre 125 mila cristiani furono costretti ad abbandonare in fretta le loro abitazioni e a rifugiarsi nella regione del Kurdistan iracheno, senza sapere se e quando avrebbero mai potuto fare ritorno.

«Oggi, dopo la sconfitta militare dello Stato islamico e la riconquista dell’area da parte delle forze governative, la ricostruzione è in atto, grazie soprattutto alle organizzazioni cattoliche, ma i progressi sono più lenti di quanto sperassimo e il rientro delle famiglie è ancora costellato di ostacoli», racconta l’arcivescovo latino di Baghdad, monsignor Jean Benjamin Sleiman, in bilico tra speranza e disillusione. «L’instabilità è dominante, la gente è sfiduciata: teme di trovare la propria casa occupata da militari o sceicchi, o anche da semplici approfittatori. Senza contare che le opere infrastrutturali, appannaggio dello Stato, non sono state risanate opportunamente». Il prelato di origini libanesi, pastore nella capitale irachena dal 2000, è stato testimone diretto, in tutti questi anni, delle successive crisi che il Paese ha dovuto affrontare in seguito all’invasione statunitense e al periodico scatenarsi delle ostilità settarie, opportunamente manipolate e fomentate da potenze esterne, vicine e lontane. «L’ascesa dell’Isis, tuttavia, ha lasciato una ferita talmente profonda che in molti, oggi, si sono rassegnati all’emigrazione». Se nel 2003 i cristiani in Iraq erano circa un milione e mezzo, si stima che oggi possano essere intorno ai 225 mila.ra l’estate del 2014 quando i tagliagole dell’Isis, nella loro marcia verso il Nord dell’Iraq, raggiunsero la piana di Ninive, culla del cristianesimo locale, e ne gettarono villaggi e cittadine nel terrore più assoluto. Nella notte tra il 6 e il 7 agosto, oltre 125 mila cristiani furono costretti ad abbandonare in fretta le loro abitazioni e a rifugiarsi nella regione del Kurdistan iracheno, senza sapere se e quando avrebbero mai potuto fare ritorno.

Eppure, c’è chi ancora resiste. Quali sono le condizioni di vita per chi riesce a tornare?

«La difficoltà più grande è la mancanza di lavoro. Anche chi ha di nuovo una casa, non sa come sfamare la famiglia. C’è poi, oltre alle carenze infrastrutturali a cui accennavo, un problema politico, perché non è chiaro chi governi e chi, dunque, sia responsabile della sicurezza. Prima c’erano i curdi, che poi si sono ritirati. Ma i soldati che presidiano ora il territorio spesso fanno riferimento a milizie, non al governo. La richiesta di una provincia autonoma, in cui le minoranze locali non si sentano minacciate dai vicini più forti, non mi sembra una prospettiva realistica a breve termine».

Qual è, in questo contesto, l’esperienza della Chiesa cattolica latina?

«Non ho timore a definirla un’esperienza di risurrezione. Noi abbiamo avuto settanta suore sfollate, i loro conventi occupati e cinque sacerdoti domenicani che hanno dovuto abbandonare Mosul e Qaraqosh per rifugiarsi nel Kurdistan. Queste suore, accolte dai caldei e sistemate nelle roulotte, si sono organizzate in quella situazione drammatica: si sono messe al servizio degli altri rifugiati e, grazie anche al supporto delle ong cattoliche, hanno aperto delle scuole per i ragazzi lontani da casa. Poi, non appena è stato possibile, le religiose di Qaraqosh sono tornate e il loro asilo, oggi, è più bello di prima. Queste suore stanno portando avanti un’opera molto importante, nel campo educativo e in quello dell’assistenza. Anche i sacerdoti stanno rientrando man mano che i villaggi vengono ricostruiti. Ciò di cui sono testimone è che, anche quando si perde molto, il Signore in un lampo ridà molto più di prima… è un forte stimolo alla meditazione su questa esperienza di esilio e spogliamento».

La convivenza con i vicini musulmani sarà più difficile ora?

«Bisogna tenere presente che in Iraq abbiamo una società ancora tribale, non accogliente verso l’alterità. L’altro – quando le cose vanno bene – vive accanto a me, ma non è mai dentro di me. Abbiamo quindi un modello di coesistenza che consiste semplicemente nel vivere vicini, non crearci problemi, evitare gli scontri. A Baghdad, per esempio, i cristiani frequentano i negozi dei musulmani e viceversa, in tempo di pace esiste un dialogo della vita, ma questo non intacca lo schema mentale secondo cui l’appartenenza e la fiducia sono riservate alla tribù, al gruppo. Un meccanismo pronto a risvegliarsi nei momenti di crisi, o quando si levano le voci di chi predica lo scontro. I cristiani qui sono assuefatti a tante forme di discriminazione, ma è innegabile che l’ascesa dello Stato islamico abbia rappresentato uno shock più pesante e un fenomeno che continua a preoccupare, perché non si tratta solo di un movimento ma di un’intera cultura dell’intolleranza che ha risvegliato pregiudizi dimenticati, odi tenuti nascosti, parole non dette».

Che tipo di discriminazioni subiscono i cristiani e le altre minoranze?

«Innumerevoli, anche a livello governativo e amministrativo. Se una persona si converte all’islam, ottiene una serie di diritti negati agli altri. Senza contare che, in caso di conversione, anche i figli diventano musulmani ipso facto. Già a scuola, i bambini di fede islamica imparano che solo loro andranno in paradiso, gli altri no perché sono infedeli. Per cambiare il Paese, è indispensabile riformare l’educazione religiosa e rivisitare le interpretazioni dei testi sacri».

Ma ci sono anche storie positive di musulmani che hanno difeso i vicini cristiani?

«Queste testimonianze non mancano. C’è gente, in Iraq, che non accetta il fondamentalismo. Alcuni ci conoscono, magari perché hanno studiato nelle scuole cristiane, e ci stimano. Qui vicino abbiamo la scuola della parrocchia e spesso, in occasione delle feste, organizzazioni musulmane sono venute a portarci dei doni, senza farsi pubblicità. Lo Spirito Santo lavora in tutta la creazione, le tracce del Verbo nel mondo esistono. Utilizzando la simbologia adottata dall’esercito americano nella suddivisione dell’area urbana di Baghdad, posso dire che c’è sempre una “zona verde” per i rapporti umani. Un problema grave è che gli iracheni sono esasperati, frustrati, ed è facile per i profeti del male spingerli a sfogarsi sui loro vicini “diversi”».

In Iraq le Chiese di diverse confessioni collaborano per tutelare le comunità cristiane e per promuovere un modello di società inclusiva?

«Su questo punto c’è ancora molto da fare. Il tribalismo di cui parlavo pervade l’intera società e anche i cristiani non ne sono immuni: lo si vede per esempio dall’esercizio dell’autorità nelle comunità. C’è una cultura da rivisitare. Siamo riusciti a creare un Consiglio che riunisce ortodossi, cattolici e protestanti, ma di recente purtroppo la Chiesa caldea ne è uscita. Nei nostri incontri non parliamo di dogmi ma dei nostri problemi quotidiani, di politica, educazione… Tuttavia dovremmo sperimentare una maggiore solidarietà, anche per essere più credibili».

Che cosa vorreste, politicamente e socialmente, per i cristiani iracheni? Qual è la chiave per non scomparire?

«La chiave è la cittadinanza: l’essere considerati tutti eguali cittadini, con gli stessi diritti e doveri, a prescindere da tribù, etnia, religione. Si tratta di un concetto che qui fa fatica ad essere compreso, perché si fa confusione tra cittadinanza e laicità, che a sua volta viene scambiata per il secolarismo. C’è anche un altro problema: la Costituzione irachena è recente – è del 2005 – e per certi aspetti moderna, ma contiene degli elementi, magari frutto di aggiunte successive, contraddittori, che rischiano di minarne l’efficacia. Per esempio, si dichiarano riferimenti inviolabili, allo stesso modo, la Shari’a, la democrazia e i diritti umani… ma come fare nel caso in cui ci si trovino delle contraddizioni?».

A Baghdad la vita è tornata in qualche modo alla normalità? E perché nel Sud, nella regione di Bassora, ricca di petrolio, la gente è esasperata?

«Qui a Baghdad c’è una relativa normalità, i cittadini sono tornati a uscire, ci sono tanti nuovi locali, ma resta un alto tasso di criminalità che caratterizza la quotidianità e le relazioni sociali. Per quanto riguarda il petrolio, una larga parte viene venduto al mercato nero, senza portare dunque benefici al popolo. La corruzione qui è endemica, ma ci sono tanti altri problemi che affliggono la gente: a livello infrastrutturale lo Stato non garantisce i servizi ai cittadini, il Paese è fortemente indebitato e non può dunque mettere in campo grandi progetti, politicamente non siamo ancora sovrani, perché c’è una lotta di influenza tra vari attori esterni. In questo contesto, il malcontento rischia sempre di essere terreno fertile per altre ondate di radicalizzazione. Insomma, non siamo ancora usciti dal tunnel».