Caritas Tunisia: abbiamo bisogno di ponti, non di muri

Caritas Tunisia: abbiamo bisogno di ponti, non di muri

Domani è la giornata mondiale del rifugiato. Padre Claudio Santangelo racconta il lavoro di Caritas Tunisia con i migranti subsahariani, in mezzo alla crisi economica e politica che il Paese nordafricano sta attraversando

È parroco della parrocchia di Sousse, dove nel 2015 l’Isis aveva colpito con l’attentato più sanguinoso, uccidendo in spiaggia 38 persone. Padre Claudio Santangelo è un religioso italiano di san Vincenzo de’Paoli ed è, da poco più di un anno, anche il direttore di Caritas Tunisia.

Quella di Caritas è una piccola presenza in un Paese che conta 20 mila cattolici su 11 milioni  e 400 mila abitanti. Ma è diventata un punto di rifeimento per i cristiani subsahariani che rimangono intrappolati come in un “limbo” in Tunisia, dopo il fallimento del tentativo di emigrare in Europa.

Nel primo semestre del 2018, a differenza degli anni precedenti, quella tunisina risulta la prima nazionalità dei migranti sbarcati in Italia: 2.943 su 15.445 mila persone in tutto. La chiusura parziale della rotta libica – attraverso il contestato accordo del governo italiano con il governo di unità nazionale di Tripoli – ha fatto sì che le partenze dalla Libia crollassero dell’84,18 per cento rispetto al 2017. Dalla Tunisia, invece, i migranti hanno continuato ad avventurarsi nel Mar Mediterraneo. A lasciare il Paese dai porti di Sfax e Kerkenna sono soprattutto tunisini (circa il 74,6% tra il 2011 e il 2016 secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali). Ma l’Organizzazione mondiale delle migrazioni ha evidenziato anche un aumento di partenze dalle coste tunisine di migranti provenienti dall’Africa occidentale, soprattutto dalla Costa d’Avorio. I trafficanti di esseri umani in Niger, stanno smistando una parte dei migranti in Algeria e poi in Tunisia, evitando così la Libia.

Padre Claudio Santangelo racconta cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo: «La crisi economica ha continuato a colpire la società tunisina engli ultimi anni -dice -. Nei mesi scorsi c’è stato un pesante aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e del carburante, tanto che c’è chi ha cominciato a dire la classica frase “Si stava meglio quando si stava peggio”, ovvero prima della rivoluzione del 2011. I tunisini tengono molto alle conquiste democratiche fatte con la primavera araba e cercano di preservarle, i giovani però sono delusi, e faticano a intravedere prospettive. La disoccupazione colpisce oltre il 30% della popolazione e qui la popolazione è composta per due terzi da giovani. Il salario medio corrisponde a circa 100 euro al mese, perciò non c’è da stupirsi se molti inseguono il miraggio di un futuro migliore altrove».

«Un altro problema che si è verificato in questi anni è stato il crollo del settore turistico – continua padre Claudio -. Dopo gli attentati dell’Isis nel 2015 è rimasto uno stigma sulla Tunisia. Fino allo scorso anno i viaggi organizzati erano scomparsi quasi del tutto. Ora qualche turista ha cominciato a tornare a Sousse, ma chi arriva qui mi dice che fino a poco tempo fa era difficile trovare un’assicurazione che coprisse un viaggio turistico in Tunisia».

Caritas Tunisia lavora su un doppio fronte: nei quartieri poveri di Tunisi, con corsi di alfabetizzazione e formazione professionale e con i migranti subsahariani. «Molti di loro, dopo il fallimento del percorso migratorio, restano “intrappolati” in Tunisia come in una specie un limbo -, dice padre Claudio -. Molti arrivano dalla Costa D’Avorio,perché non serve visto per entrare in Tunisia. Il 90% sono donne e hanno alle spalle viaggi terribili: alcune sono vittime della tratta, di agenzie che le illudono di trovare lavoro in Tunisia e poi seguestrano loro il passaporto, rendendole di fatto schiave. Cerchiamo di fare un cammino con loro e di aiutarle».

Caritas ha aperto aperto un centro d’ascolto a Tunisi, in un quartiere di periferia, un piccolo ostello che ospita una quindicina di persone e un servizio per la salute. «Accompagnamo le persone che hanno bisogno di analisi mediche o interventi chirurgici e offriamo sostegno psicologico. Ma ovviamente ci sarebbe da fare molto di più – continua padre Claudio – . Abbiamo attivato una collaborazione con la Caritas della Costa D’Avorio, nell’ambito del progetto Cei “Liberi di partire, liberi di tornare”. In questi giorni abbiamo aiutato una donna che aveva alle spalle una storia di schivitù domestica a rientrare in Costa D’Avorio, dove aveva lasciato quattro figli. Siamo convinti che il modo giusto per aiutare queste persone è costruire ponti con i loro Paesi di provenienza».