Papa Francesco: cinque anni col mondo

Papa Francesco: cinque anni col mondo

Gesuita argentino, padre Diego Fares è al fianco di Bergoglio da molti anni: «Dobbiamo ancora capire davvero cosa ci sta dicendo sui poveri come via per incontrare Cristo». Nostra intervista

 

Si è presentato come il Papa venuto «dalla fine del mondo». Ma da questo luogo, che è anche una prospettiva ben precisa, che cosa ci ha portato davvero? Sono passati cinque anni da quel 13 marzo 2013, quando Papa Francesco iniziava il suo ministero di successore di Pietro. Cinque anni di parole dritte al cuore, di sguardi di misericordia, di scelte che mescolano le carte, di uscite verso periferie lontane. Ma a quale stile missionario ci sta conducendo Papa Francesco?

Per provare ad annodare qualche filo rosso in questo anniversario abbiamo chiesto aiuto a una persona che Jorge Mario Bergoglio lo conosce bene da tanti anni: padre Diego Fares, infatti, lo ha avuto a fianco sin da quando da padre provinciale, nel settembre 1975, lo accolse all’inizio del suo cammino per il noviziato tra i gesuiti in Argentina. Professore di metafisica a Buenos Aires per vent’anni, padre Fares ha unito all’insegnamento nella Facoltà di Teologia e Filosofia l’esperienza accanto ai poveri dell’Hogar de San José e ai malati terminali della Casa de la Bondad. Finché, nel 2015, è stato chiamato anche lui a Roma nel collegio degli scrittori di La Civiltà Cattolica, la storica rivista dei gesuiti.

Padre Fares, quale gesto di Papa Francesco le è rimasto più impresso in questi cinque anni di Pontificato?

«È difficile sceglierne uno… Papa Francesco mette tutto il cuore in ogni suo gesto e dunque sono tantissimi quelli che commuovono. Uno piccolo, di questi giorni: la mamma novantenne di una amica – che ha fatto la sarta tutta la sua vita – gli aveva consegnato un regalo tessuto con le sue mani, e il Papa le ha scritto una bellissima lettera personale ringraziandola (la figlia non finiva di ripetere “ci sono rimasta…”). Penso anche a un gesto che mi ha colpito molto: il suo modo di esporsi di fronte ai giornalisti nella conferenza stampa del volo di ritorno dal recente viaggio apostolico in Cile e Perù. L’insistenza dei giornalisti mi è sembrata proprio un interrogatorio. E Francesco ha risposto con una trasparenza, con un’umiltà, con una pazienza e chiarezza tali, da commuovermi. Ho sentito che lo spirito di accanimento mediatico si è fermato li, davanti a un Papa che non teme di chiedere perdono, che sa sopportare le umiliazioni e cerca di essere un giudice onesto. Papa Francesco, come giudice, non è mai Pilato. Non se ne lava mai le mani».

Che cosa sta dicendo il Pontificato di Papa Francesco al cattolicesimo latino-americano? E a che punto è il cammino tracciato nel 2007 dalla Conferenza di Aparecida?

«Nella prefazione del libro-intervista di Francesco “America Latina. Conversazioni con Hernán Reyes Alcaide”, il Papa sostiene che lo Spirito Santo abbia plasmato nelle viscere dei popoli latinoamericani un volto e una coscienza cristiana particolari che possono arricchire la Chiesa universale. Se si impara a contemplarlo – soprattutto là dove è disegnato meglio e cioè nella devozione e nella mistica popolare – questo volto può rappresentare una grande ricchezza per la Chiesa universale che cerca d’incarnarsi in tutte le culture. La prima condizione per questo arricchimento è che, da parte sua, l’America Latina sappia valorizzare davvero questo dono ricevuto. Sia fiera di questa fede che è diventata cultura e che ispira e trae fuori il meglio di ciascun popolo, senza cedere alla tentazione degli scontri e della corruzione del mondo di oggi. Dall’altro lato, però, perché diventi ricchezza per tutti, occorre anche che la Chiesa universale abbandoni una mentalità che considera alcune culture tecnologicamente più sviluppate come superiori, e accetti invece che il Vangelo possa diventare più bello se letto a partire da contesti diversi. Questa conversione culturale implica anche l’abbandono del clericalismo come prodotto che finisce per sostituirsi al Vangelo, confinando lo Spirito in una gabbia».

«Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri», disse Papa Francesco subito dopo la sua elezione: che cosa manca ancora?

«Dobbiamo ancora comprendere e trarre le conseguenze sia pratiche sia teoriche del fatto che l’opzione per i poveri è cristologica, come disse Benedetto XVI alla Conferenza di Aparecida. Non è un’opzione solo sociale o politica, né – men che meno – filantropica. Francesco rimette i poveri al centro della Chiesa perché sono il centro del Vangelo. Come diceva sant’Alberto Hurtado, un santo cileno vissuto nel Novecento, “il senso del povero” è l’essenza del cristianesimo. Francesco stimola questo imparare a percepire Cristo nei poveri. Il Cristo che viene ad arricchirci con la sua povertà, come dice Paolo, e il Cristo che ha bisogno dell’aiuto di quanti godono di una ricchezza che va condivisa».

Quale tra gli inviti dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium ritiene oggi più importante da riscoprire per la missione evangelizzatrice della Chiesa?

«L’Evangelii Gaudium ci dice al numero 273 che “nel cuore del popolo… io (nel senso di ciascuno di noi) sono una missione”. Unisce la chiamata a evangelizzare con l’inculturazione nel cuore di ciascun popolo, cioè nella sua cultura. Facendo così Francesco ci porta nel luogo teologico per discernere ogni vocazione e ogni missione, adempiendo il mandato del Signore a evangelizzare tutti i popoli. Quello che voglio dire è che non si può discernere in astratto; per discernere occorre inculturarsi, compiere passi concreti in uscita e vivere insieme a ciascun popolo e a ciascuna cultura. Per ascoltare proprio lì lo Spirito che sta già parlando in questi popoli dal giorno della Pentecoste».

Su La Civiltà Cattolica ha definito l’Amoris Laetitia un «avvenimento linguistico». In che senso? E perché è così importante il «linguaggio della misericordia»?

«È una frase detta dal cardinale Christoph Schönborn durante la presentazione di Amoris Laetitia: “Qualcosa è cambiato nel discorso ecclesiale”, commentò. In Amoris Laetitia, il Papa parla lungamente dell’amore e utilizza un tono colloquiale e pastorale. Il Papa non insiste con il linguaggio astratto dei divieti, con il “si può o non si può”. Ci fa entrare in pieno nel discernimento, che poi non è altro che ascoltare lo Spirito che ci rivela la Verità in ogni momento della nostra vita concreta per crescere nell’amore e nella misericordia, non per guardarlo in astratto sui libri. Un mio amico giornalista, sentendo un padre sinodale definire la vita familiare “una sinfonia tra eros e agape”, mi diceva: “Pensa un po’ se vado a casa e, a mia moglie che sta preparando in fretta il pranzo perché è tornata tardi dal lavoro, dico: sai, noi siamo una sinfonia di eros e agape…”. Mentre lo ascoltavo, ho cercato di mettere da parte il contenuto della frase che pure in sé mi sembrava sensata, per “sintonizzarmi” su questa osservazione. Quel “se io adesso vado a casa…” mi ha fatto capire che gli servivano parole adatte – un linguaggio – da portare alla sua famiglia alla fine della giornata di lavoro, così come si porta il pane o qualcosa di utile per la casa. L’inculturazione pastorale è questo».

Papa Francesco finisce ogni suo incontro con qualsiasi interlocutore con l’invito: «Per favore, non dimenticate di pregare per me». Come leggere in profondità questo suo ritornello?

«Ha sempre chiesto di pregare per lui: me lo ricordo da quando ero novizio. E dai frutti si vede che la gente lo ha fatto realmente e che lui lo ha chiesto in modo sincero. È una grazia particolare questa che il Signore gli ha donato: la consapevolezza del valore assoluto ed efficace della preghiera».

Perché in questi cinque anni Papa Francesco non è ancora tornato in Argentina? E come si immagina questo viaggio quando avverrà?

«Per noi argentini questa domanda è diventata un cliché: non la si può ignorare, ma bisogna anche evitare di cadere in trappole come certi annunci-spazzatura che circolano su internet. Rispondo dicendo che dietro questa domanda può esserci uno spirito buono o uno spirito cattivo. Se uno pone questa domanda per polemizzare o per altri motivi, non ho nulla da rispondere che non sia già stato detto. Ma a un argentino che ama il Papa e sente che per lui sarebbe una grande consolazione una sua visita, io dico: piuttosto che chiederti perché non viene, come se questo fosse un fatto già assodato, pensa a che cosa possiamo fare adesso, mentre speriamo che venga tra noi, perché la sua visita sia davvero apostolica e per il bene di tutti. E innanzitutto credo che dobbiamo ricordare quanto, in tanti anni di vita pastorale, Bergoglio ha dato alla nostra patria. Il rinvio della visita deve far crescere il desiderio di apprezzare ciò che abbiamo già di suo a nostra disposizione».