Pietre di scarto

Pietre di scarto

Le persone più vulnerabili e “scartate” sono al cuore dell’opera instancabile di padre Danilo Fenaroli del Pime, che da vent’anni offre accoglienza e assistenza al Centro Betlemme di Mouda

 

«Ma è il caso di costruire una struttura così bella per quelli?». Padre Danilo Fenaroli se la ricorda bene la domanda di un muratore, impegnato nella costruzione di uno dei tanti edifici che oggi formano il Centro Betlemme. Quelli erano (e sono) orfani, disabili, sordomuti… Un popolo di vulnerabili, persone “scartate” (direbbe Papa Francesco), che a Mouda hanno invece trovato casa e braccia aperte all’accoglienza. Siamo a pochi chilometri da Salak, la zona dell’aeroporto di Maroua, la città più importante dell’Estremo Nord del Camerun. Mouda è un’oasi (in tutti i sensi), in un territorio caratterizzato da terreno sabbioso, un panorama roccioso, a tratti lunare. Il Centro Betlemme si estende su 45 ettari, dove sorgono una dozzina di costruzioni. Ma all’esterno del Centro c’è un vero e proprio villaggio, formato in larga parte dal personale che lavora all’interno e che ha messo radici lì.

Avviato nel 1997, il Centro Betlemme è un esempio emblematico di testimonianza della carità, una delle piste di annuncio del Vangelo che i missionari del Pime hanno scelto lungo i 50 anni di presenza in Camerun. Mentre lo visitiamo, resto colpito dal clima che vi si respira. Per quanto spesso incrociamo persone con problemi fisici o mentali evidenti, regnano una sensazione di pace, un’atmosfera di famiglia. Per tutto il tempo, ad esempio, saranno con noi Agnes, disabile psichica, che ogni tanto si rivolge a padre Danilo regalandogli sorrisi indimenticabili, e Mathieu, un ragazzo del Ciad, con problemi di vario genere, portato sin qui da un altro missionario del Pime, Marco Frattini.

Il Centro stesso è una specie di villaggio, con al cuore la cappella. Attorno un grande salone per le riunioni, il refettorio comunitario, le scuole e i laboratori di lavoro, le case dove vivono padre Danilo e i suoi collaboratori, più i “saré”, recinti di casette all’africana, delimitati da un muretto, nei quali vivono ragazze e vedove con bambini orfani o ammalati. Poco distanti, ecco i laboratori, nei quali sono impegnati i giovani che vogliano imparare un mestiere (quest’anno 175). Ce n’è per tutti i gusti: falegnameria, meccanica, elettrotecnica, lavorazione di cuoio e ferro, scultura su legno, artigianato vario (decorazioni, pirografia su legno, segnaletica su strada o per le case), cucito e ricamo, pittura, tintura batik, muratura, saldatura, un’officina per la riparazione dei motori… Non manca una fattoria ben organizzata, con coltivazioni di cereali, frutta e verdura (anche grazie all’irrigazione artificiale) e l’allevamento di animali (mucche, maiali, galline…).

I dipendenti del Centro sono 180, ma salgono a 220 se si considerano tutti quelli della Fondazione; sono in maggioranza cattolici, ma vi sono anche protestanti e membri di varie Chiese, una ventina di musulmani e alcuni che professano la religione tradizionale. L’anima di tutto è, però, ancora oggi, padre Danilo. «La sensibilità per i disabili era una cosa che mi portavo dentro da sempre – spiega -. Al mio paese esisteva una struttura per disabili adiacente a casa mia, l’Opera diocesana “Angelo custode”. Ricordo che mio papà spesso dava loro i frutti della terra. Anche la tesi di teologia l’ho fatta sul tema dell’handicappato nella comunità cristiana, con il mio confratello Gian Paolo Gualzetti».

Bergamasco, 57 anni, ordinato sacerdote nel 1986, padre Danilo è arrivato in Camerun nel 1991, dopo tre anni di esperienza in Costa d’Avorio, dove non gli era stato possibile avviare un’esperienza come quella in corso a Mouda. «Rientrato in Italia, ho frequentato per un anno il Camillianum, per avere una formazione spirituale specifica; contemporaneamente ho preso contatti con la comunità di Capodarco a Roma, con la quale lavoravo in una cooperativa di strada, in modo da fare esperienza sul campo».

Tornato in Africa, stavolta in Camerun, per dieci anni padre Danilo ha lavorato in parrocchia a Zouzoui, ma sempre sognando di potersi dedicare a una realtà di accoglienza per i più vulnerabili. «Mentre ancora ero parroco ho cominciato a raccogliere orfani e handicappati», ricorda. Nasce così l’idea di realizzare una struttura ad hoc. Buona parte del terreno del Centro Betlemme è stato donato gratuitamente dal capo villaggio: «Oggi è molto soddisfatto, perché Mouda ha raddoppiato i suoi abitanti ed è una realtà vivace», commenta padre Danilo.

Perché Betlemme? «In ebraico – è la risposta – Betlemme significa la “casa del pane”. Anche il Centro vuol essere una “casa”, capace di accogliere quelli che sono messi da parte, di abbracciare tutte le persone che hanno bisogno di essere protette e considerate come uomini e donne, di recuperare la loro dignità. Qui in Camerun, anche oggi, quando si vede un “diverso” si pensa subito alla sorcellerie, ossia alla stregoneria. Per riuscire a scalfire questa mentalità occorre sensibilizzare le persone e parlare, ma più importante ancora è mostrare concretamente che il Vangelo è un messaggio di liberazione, riesce a trasformare le persone, a rimettere in piedi gente che si considerava “perduta”».

In vent’anni di risultati ne ha ottenuti molti e non di poco conto: «Tanti hanno visto con i loro occhi l’utilità del Centro: persone che erano ai margini si sono integrate nella vita del villaggio. A volte alcuni si meravigliano del fatto che donne e uomini che non sentono, non parlano oppure hanno problemi fisici o mentali qui siano contenti. Il motivo è semplice: hanno ritrovato la vita in questo ambiente e manifestano anche esternamente il loro “benessere”. Per questo motivo siamo letteralmente presi d’assalto. Vengono persone anche da 100-200 chilometri, in alcuni casi dal Ciad. Il nostro non è un ospedale, ma tanti vengono qui per cercare cure. E trovano personale preparato, ma soprattutto un ambiente accogliente, che a livello psicologico aiuta molto il malato».

Continua padre Danilo: «Le persone più emarginate devono toccare con mano la misericordia di Dio, la buona notizia del Vangelo. Proprio perché normalmente sono escluse, è essenziale che qualcuno le metta al centro. Ecco perché, con stupore dei muratori, volevo case belle per persone che sono considerate degli “scarti”. E quando dico questo non esagero: loro stessi ci hanno raccontato le umiliazioni subite, il fatto di sentirsi considerati come delle bestie. Una realtà triste, che permane: in alcuni villaggi, purtroppo, non abbiamo trovato handicappati, non perché non ne fossero nati, ma perché, piano piano, sono stati lasciati morire».

Anche per questo motivo la Fondazione Betlemme ha promosso nei villaggi la riabilitazione su base comunitaria: significa che si sensibilizza la comunità sul tema della disabilità e, quando si presenta qualche caso, ci si rivolge alle varie strutture anche prendendosi carico di chi non può farlo.

Padre Fenaroli è l’unico membro del Pime direttamente coinvolto nel Centro. Anche per questo, in una logica lungimirante, dal 2002 ha scelto dei “compagni di viaggio”: i Silenziosi operai della croce, una famiglia religiosa ispirata alla figura di don Luigi Novarese, beatificato nel 2013. Al Centro Betlemme sono quattro le sorelle presenti: due camerunesi, una togolese e una italiana, Rosa. Con loro, da sette anni, anche Joel, una ragazza valdostana, che faceva parte dei volontari dei Silenziosi operai. Spiega padre Danilo: «Abbiamo steso uno statuto, in virtù del quale dividiamo gioie e pene, soddisfazioni e debiti. Io, al momento, sono da solo, anche se per sette anni ho avuto con me José, un fratello bengalese del Pime, che ha lavorato bene, soprattutto tenendo i contatti con le famiglie dei nostri ospiti sul territorio».

La Fondazione Betlemme da alcuni anni ha ottenuto dal governo il riconoscimento di “Ente di pubblica utilità”: un attestato molto importante (concesso solamente a sei organismi in tutto il Paese), che certifica la qualità dei servizi offerti e motiva il sostegno che lo Stato offre a questa realtà così preziosa, specie in quella regione così povera e

marginalizzata del Paese. Commenta padre Danilo: «Questo dovrebbe assicurarci tante agevolazioni, ad esempio per quanto riguardo il personale (docenti, assistenti sociali…), ma non sempre si riesce a ottenere tutto il dovuto. Di fatto, però, l’avere quel “biglietto da visita” è molto importante quando si presentano progetti, sia ai ministeri camerunesi che alla cooperazione italiana o europea».

Padre Danilo un talento speciale ce l’ha: la capacità di fare rete. A sostegno del multiforme lavoro della Fondazione Betlemme, infatti, ci sono molti amici e benefattori, tra cui la Fondazione Pime onlus, l’associazione Ngama del suo paese natale, la Conferenza episcopale italiana (con i fondi dell’8×1000) e altre associazioni.