Zimbabwe: il lato poco “green” del litio

Zimbabwe: il lato poco “green” del litio

È un minerale strategico per l’industria dell’auto elettrica, ma in Zimbabwe il litio è diventato una sciagura per le popolazioni e per l’ambiente. Il caso della cinese Bikita Minerals che gestisce la più grande miniera del Paese, da cui gli abitanti locali non traggono alcun beneficio, anzi…

Sfruttamento del territorio e sfruttamento dei lavoratori sono due delle maggiori problematiche sollevate da lavoratori, sindacalisti – ma anche da Centri studi – circa la miniera di litio di Bikita, la più vasta dello Zimbabwe. Questo Paese dell’Africa australe detiene la più grande riserva di litio di tutto il continente africano e la sua estrazione rappresenta un importante supporto a un’economia in difficoltà. Quella mineraria, infatti, è l’industria più in crescita, grazie soprattutto agli investimenti delle compagnie cinesi, ma non mancano i lati oscuri.

Da anni, infatti, si susseguono denunce e appelli e sono moltissime le testimonianze di lavoratori e abitanti della zona, che hanno subito sulla loro pelle le conseguenze di uno sfruttamento indiscriminato. Senza che cambiasse nulla. Lo scorso ottobre, la morte di uno degli operai, ha riacceso brevemente i riflettori in particolare sulle negligenze della società cinese Bikita Minerals, che gestisce la miniera.

Non è un segreto che la Cina sia uno degli attori più importanti in moltissime attività minerarie in particolare nell’Africa centrale. Lo stesso vale per lo Zimbabwe: Bikita Minerals è infatti l’azienda sussidiaria locale della società cinese Sinomine Resource Group, che finanzia direttamente i progetti estrattivi. Nel 2023, ha generato un guadagno di 500 milioni di dollari americani. L’influenza del colosso asiatico si è rivelata un ottimo strumento per evitare le pressioni dell’Occidente, in atto fin dagli anni Novanta tramite sanzioni ed embarghi da parte dell’Unione Europea, del Regno Unito e degli Stati Unti, a causa delle violazioni dei diritti umani riscontrate nel Paese. Tali pressioni, però, non sembrano essere servite a molto, anche per il ruolo da intermediario che il governo cinese ha svolto tra gli Stati, facendo sì che la gestione delle miniere non subisse troppe restrizioni. E così il Paese asiatico ha continuato a importare materie prime non solo dallo Zimbabwe, ma anche da molti altri Stati africani. Lo stesso presidente zimbabweano Emmerson Mnangagwa considera Pechino un alleato strategico, mentre i rapporti con i Paesi occidentali si sono progressivamente deteriorati.

Nonostante le ripetute promesse di sviluppo legate alla miniera, molti lavoratori e abitanti del luogo mostrano in realtà una grande sfiducia nei confronti della Bikita Minerals e del governo zimbabwiano, e accusano entrambi di aver ignorato qualsiasi norma di protezione ambientale e sociale con l’obiettivo di portate avanti progetti lucrativi sull’estrazione del litio. Questo minerale, infatti, è fondamentale per le nuove tecnologie verdi – e in particolare per l’industria dell’auto elettrica – che si stanno sviluppando nel mondo, ma sono molto pochi i benefici locali.

Rebecca Ray, ricercatrice del Global Development Policy Center della Boston University, che ha studiato diversi altri casi di investimenti da parte della Cina in Africa, America Latina e Sud-est Asiatico, ha affermato che è necessario puntare a un maggiore rispetto delle norme ESG (Environmental, social and governance – ambientali, sociali e di governo), che la Cina non metterebbe in pratica come dovrebbe.

Una abitante di un villaggio della zona, Rindai Makumbe, ha dichiarato alla piattaforma Mongabay – che si occupa di conservazione e scienze ambientali – che rimpiange il giorno in cui, nel 2022, la miniera è stata acquisita dalla Sinomine: «Hanno costruito strade e creato impianti elettrici attraverso i nostri campi. Non ci hanno mai consultato sulla questione, e siamo rimasti sorpresi nel vedere i bulldozer che sgombravano le nostre terre, spesso anche vicino alle abitazioni», ha spiegato. Teoricamente, l’espropriazione dei terreni prevedeva un indennizzo adeguato affinché la gente del posto si ristabilisse al di fuori del territorio della miniera. Eppure, altri abitanti come Assah Hwenyani hanno raccontato che nessuno di loro è stato interpellato, come è imposto invece dalla legge, nel prendere questa decisione, e in molti non sono ancora stati ricompensati. Solo i capi della comunità locali sono stati consultati e risarciti. Nonostante le lamentele, il governo non ha ancora risolto questo conflitto terriero.

A questa questione se ne affianca un’altra, altrettanto preoccupante, che riguarda gli effetti ambientali della presenza della miniera. La zona di Bikita è spesso colpita da carestie e solo il fiume che scorre tra questa città e Gutu funge da risorsa idrica per il territorio. L’acqua viene raccolta nella diga Matezva. Evelyn Mareke, che vive proprio in quella zona, ha accusato la miniera di aver inquinato le acque attraverso il rilascio di particelle tossiche sconosciute. «La nostra sopravvivenza si basa sui prodotti agricoli che irrighiamo grazie alla diga, così come sulla pesca. Però la miniera ha inquinato l’acqua, e le nostre colture ne hanno risentito. L’inquinamento ha anche portato alla morte dei pesci e della fauna acquatica – ha spiegato -. Anche il bestiame che beve l’acqua della diga è stato colpito».

Collins Nikisi, uno dei responsabili della Bikita Minerals, ha risposto a questa accusa, ammettendo il rilascio di liquidi nella diga, ma negando l’ipotesi che vi fossero sostanze chimiche tossiche. La compagnia non ha però mostrato i risultati dei loro test, e similmente, l’Agenzia per la gestione ambientale dello Zimbabwe ha affermato che la perdita nella diga probabilmente conteneva sostanze chimiche, ma non ha dato ulteriori informazioni su quali tipi di sostanze.

La poca chiarezza di questa vicenda è la stessa che si riscontra negli eventi registrati sempre lo scorso ottobre, quando un impiegato della Bikita Minerals, Nelson Musendekwa, di 44 anni, è morto schiacciato da una pressa di trenta tonnellate mentre. Sette altri colleghi, che si trovavano nello stesso luogo, sono rimasti fortunatamente illesi. I familiari dell’uomo che ha perso la vita si sono rifiutati di rilasciare dichiarazioni alla stampa, in seguito a un probabile accordo preso con la società che gestisce la miniera. Pfungwa Kunaka, segretario del Ministero delle Miniere e dello Sviluppo minerario in Zimbabwe, ha affermato che le autorità hanno indagato sull’accaduto, ma la miniera non ha mai chiuso durante le indagini, come invece era successo nel mese di maggio in seguito alle gravi violazioni riscontrate (come l’assunzione di immigrati cinesi illegali e il contrabbando del litio) che hanno obbligato la Bikita Minerals a rivedere alcune questioni amministrative. Justice Chinhema, segretario generale della Zimbabwe Diamond Allied Minerals Workers (Zdamwu, Sindacato dei lavoratori dei diamanti e dei minerali dello Zimbabwe), ha detto che non sono ancora giunte comunicazioni ufficiali riguardo a ciò che è stato trovato sulla scena dell’incidente. Si è ancora in attesa di maggiori risposte.

Quel che è certo è che l’impatto del sito minerario è evidentemente molto negativo sia sull’ambiente che sulla popolazione locale. Sembra che negli ultimi tempi siano in atto alcuni piani per regolamentare la presenza cinese e imporre norme più restrittive che, secondo Rebecca Ray, vengono rispettate nei Paesi in cui i governi si mostrano più rigidi e stringenti nel farle seguire. Le comunità locali sperano comunque di ottenere più benefici rispetto a quelli visti finora: nella zona, infatti, vi è una grave mancanza di elettricità e una nuova centrale a carbone sta nascendo proprio nel mezzo del villaggio di Bikita, ma solo per alimentare la miniera. Di conseguenza, i cittadini rischiano di subire anche l’inquinamento provocato dal nuovo impianto, come ha spiegato Farai Maguwu, direttore del Cnrg, a Mongabay.

Un report del 2023 del Global Development Policy Center su cinque progetti finanziati dalla Cina in tre diversi Paesi africani mostra che gli investimenti non rispettavano le line guida ESG, e nei report recenti del Business & Human Rights Resource Centre, le compagnie cinesi sono state accusate di ben 102 violazioni nel corso degli ultimi due anni in relazione allo sfruttamento di minerali per tecnologie “green”. I Paesi più colpiti, secondo il report, oltre lo Zimbabwe, sono l’Indonesia (per il nickel), il Perù (per il rame), la Repubblica Democratica del Congo (per il cobalto), il Myanmar (per i metalli delle terre rare). In realtà però queste violazioni sembrano provenire anche da altri Paesi, vale a dire dagli investitori di Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Australia ed Europa.

In risposta alle accuse e per difendere la propria reputazione, la Cina sta incrementando i suoi sforzi nel seguire le norme ESG e attenuare i rischi, che sembrano essere già parzialmente diminuiti tra il 2019 e il 2021, passando dal 56% al 40%. A maggio dello scorso anno, la Camera di commercio dei metalli, minerali e sostanze chimiche Import & Export cinese ha creato uno strumento di confronto e consultazione per raccogliere le preoccupazioni ambientali e sociali legate all’industria mineraria e cercare soluzioni. La Cina ha inoltre recentemente reso note nuove regole ESG per stare al passo con le richieste dell’Europa.

«Quello che le compagnie minerarie dovrebbero fare in Zimbabwe è seguire le leggi del Paese – ha commentato il sindacalista Justin Chinhema -. Non ci aspettiamo che gli investitori arrivino e impongano il loro modo di lavorare: ci aspettiamo che rispettino le nostre leggi».