Nur, luce della fede nella savana del Ciad

Nur, luce della fede nella savana del Ciad

Madre cattolica, padre musulmano, missionario in mezzo a un popolo di religione tradizionale. Dove quello che parla a tutti è il Vangelo. La testimonianza di don Nur el Din, fidei donum di Novara, in Ciad

Madre italiana cattolica, padre egiziano musulmano, un nome che in arabo significa “luce della fede”: Nur el Din. Un nome un destino, avrebbero detto i latini che coniarono l’espressione nomen omen. Perché lui, don Nur el Din Nassar, 41 anni di Novara, è davvero luce della fede di nome e di fatto.
La sua, infatti, è la storia assolutamente fuori dall’ordinario di un ragazzo, figlio di una coppia mista, cresciuto senza condizionamenti religiosi e che ha scelto la missione: «I miei genitori – ricorda – avevano una fede semplice ma forte e rispettavano l’uno la religione dell’altra. Per questo hanno deciso insieme di non imporre i sacramenti a noi tre figli. Stava a noi, da grandi, decidere che cosa fare della nostra vita di fede».
Per Nur è stato un percorso non facile. Attorno ai 17 anni, grazie all’incontro con un prete particolarmente coinvolgente, don Valentino Salvoldi di ritorno dall’Africa, non solo sceglie la religione cattolica, ma comincia anche a confrontarsi con una chiamata più radicale, quella di diventare sacerdote e quindi missionario. Da quasi quattro anni, infatti, don Nur è fidei donum in Ciad, impegnato a portare la testimonianza del Vangelo in un contesto di primissima evangelizzazione e in mezzo a un popolo principalmente di religione tradizionale.
«Mio padre mi ha sempre insegnato che esiste un solo Dio e che siamo tutti fratelli», ci racconta da Bissi Mafou, un villaggio di savana nella diocesi di Pala, dove don Nur opera all’interno di un’équipe formata da tre preti – con lui ci sono don Benoît Lovati e don Fabrizio Scopa – e da due volontarie laiche – Chiara Martini ed Elisa Perrin. Anche se, deve ammettere, «non è stato facile per mio padre accettare la mia scelta. C’è voluto del tempo affinché, anche come famiglia, crescessimo ulteriormente nella fede, ciascuno nella sua. Alla fine, credo sia stato un arricchimento per tutti».
Adesso, questo percorso di conoscenza, condivisione e arricchimento lo sta portando avanti in prima persona, in un contesto completamente nuovo e diverso, camminando principalmente con il popolo moundang del Sud-ovest del Ciad e con le altre popolazioni che vivono in quella regione al confine con il Camerun.
«La vocazione missionaria l’ho sempre sentita come parte del mio ministero – racconta -. Non ho chiesto esplicitamente di partire, ma il mio vescovo sapeva che ero disponibile». E così, dopo un periodo di discernimento, e su sollecitazione di don Benoît, ha deciso di raggiungere l’équipe di Novara, a cui si è aggiunto anche don Jérôme Lagabe, prete diocesano di Pala.
«Siamo una bella famiglia allargata!» si entusiasma don Nur, che si divide tra le molte attività di una parrocchia vastissima, dove i cristiani di tutte le confessioni arrivano a malapena al 10% della popolazione. «Attualmente siamo divisi in due gruppi a poca distanza l’uno dall’altro, con l’idea che in futuro si possano creare due parrocchie distinte, che coprano ciascuna un territorio un po’ meno ampio. Gestiamo alcune attività pastorali in autonomia, mentre su altre lavoriamo insieme e abbiamo molti momenti di vita fraterna».
Le sfide non mancano in un contesto di grande povertà e arretratezza: sanità, istruzione, promozione della donna, giustizia e pace e soprattutto prima evangelizzazione. A Bissi Mafou, ci sono un dispensario e un piccolo laboratorio di analisi, scuole medie e liceo, mentre nei villaggi i missionari hanno spinto per la creazione di scuole elementari. Dopo due anni, se la gente del posto ha dimostrato un reale impegno e coinvolgimento, vengono regolarizzate e sostenute. «Vogliamo che le sentano loro, non del prete. Soprattutto, non vogliamo lasciare briciole di elemosina, ma costruire qualcosa insieme. Lo stesso vale per i granai comuni, e anche per i cammini con donne e giovani che seguo personalmente, cercando di valorizzare idee, forze, capacità…».

La sfida più grande, però – in un contesto culturale e tradizionale così diverso – è quella con se stessi: «Mi sento ancora come un bambino – ammette – che muove i primi passi in questa terra in cui c’è tanto da conoscere e da imparare. Compresa la lingua che richiede un grande impegno. Perché non si deve apprendere solo la parola, ma il suo significato più profondo, che si colloca all’interno di una concezione di tempo, spazio, relazione, visioni del mondo e dell’altro che sono diversissime dalle nostre. Poi però, se si va all’essenziale, alla fine si scoprono sempre l’uomo e la sua fame di amore e di relazione. Anche se detto in modo diverso».
Don Nur, tuttavia, si è reso conto in questi anni che c’è una parola che parla a tutti. Anzi, è la Parola che parla a tutti: «È straordinario come il Vangelo riesca ad arrivare a chiunque e come sia meglio inteso rispetto a tutto quello che io posso dire o rappresentare. Perché usa parole semplici e immagini molto vicine alla gente di qui. Le parabole, in particolare, sono facilmente comprese. Le sentono familiari e nello stesso tempo sconvolgenti, perché mettono in discussione alcuni riferimenti della tradizione. Parlare di Gesù che ha uno sguardo di amore gratuito, che non chiede nulla in cambio, che non ha relazioni di interesse o predatorie, è a suo modo sconcertante. Parlare delle donne, dei loro diritti e della loro dignità, attraverso le figure femminili del Vangelo, è sfidante per noi e per loro. Soprattutto per gli uomini. Perché in realtà le donne capiscono meglio questo messaggio, partecipano più volentieri al catecumenato, insieme a ragazzi e giovani. Gli uomini hanno più difficoltà. Nella tradizione, diventare cristiano è come fare un passo indietro, si perdono dei privilegi, non solo in famiglia o in termini di poligamia, ma proprio nella relazione con le donne e i bambini; è come se si perdesse autorità. Alcuni, tuttavia, si interessano al Vangelo e a Gesù, pur sapendo di non poter ricevere il battesimo perché sono poligami; chiedono, però, di fare un percorso di catechesi e di diventare “amici della Chiesa”, partecipando alla preghiera o impegnandosi in attività caritative».
È un cammino che richiede tempi molto lunghi. E che in fondo è cominciato da poco. La missione, in questa terra, ha una storia molto recente. I primi cristiani a mettere piede tra i moundang furono i luterani attorno al 1920. Il primo prete cattolico, padre Raoul Martin, oblato di Maria Im­macolata, è giunto a Bissi Mafou solo nel 1957. Attualmente, nella diocesi di Pala ci sono una sessantina di preti e metà sono africani, un bel segno di cooperazione tra Chiese Sud-Sud. E da qualche anno ci sono anche due preti moundang e uno è in formazione in seminario. «Tuttavia, i pilastri della nostra missione sono ancora i catechisti – ammette don Nur -. Sono loro le vere “autorità” nei vari villaggi e nelle comunità. E anche se hanno una formazione umile, si fanno carico di tante attività: gruppi di donne, giustizia e pace, salute e così via. Sono i laici che portano avanti tutto». I gruppi di giustizia e pace, in particolare, hanno spesso un ruolo importante nella risoluzione dei conflitti, che in questa regione riguardano specialmente agricoltori e pastori. I moundang facevano parte di un regno che si è dissolto sotto la pressione dei peul musulmani e poi della colonizzazione francese. Tuttora, però, sono organizzati in chefferie, che hanno una grande influenza sulla gente. «La maggior parte segue la religione tradizionale – racconta don Nur -, mentre i musulmani sono pochi e appartengono ad altre etnie: fulbé, tupuri, mbororo… E non sempre i rapporti sono facili, anzi!».

I cambiamenti climatici e l’avanzamento del deserto che interessa tutto il Sahel spingono sempre più frequentemente le popolazioni nomadi di allevatori verso Sud, in cerca di pascoli. Spesso, però, invadono e distruggono i campi degli agricoltori, provocando conflitti e spirali di violenze e vendette senza fine. «Ogni anno – conferma don Nur – abbiamo scontri con morti e feriti. Anche perché le autorità locali concedono alle mandrie di occupare territori, passando e distruggendo tutto. Purtroppo non ci sono piattaforme di dialogo e i militari non guardano in faccia nessuno. Noi portiamo avanti gruppi di giustizia e pace, cercando di formare la gente su questi temi. Per alcuni anni la Chiesa ha lavorato bene, ma ora si è un po’ indebolita, anche perché c’è tanto da fare e le forze sono limitate».
Tutta la situazione del Ciad, del resto, è appesa a un filo sottile. Dopo l’uccisione, il 20 aprile scorso, del presidente Idriss Déby, al potere da trent’anni, il Paese è retto da un Consiglio militare di transizione che ha sospeso la Costituzione. Le regioni del Nord, inoltre, continuano a essere infestate da banditi e miliziani e tutti i confini sono interessati da criticità; quello con la Libia è in mano a criminali e gruppi terroristici; quello con la Nigeria conosce spesso sconfinamenti dei fondamentalisti di Boko Haram; verso il Sudan ci sono gli oppositori del campo di Déby; mentre sulla frontiera del Centrafrica si verificano frequenti scaramucce anche per la presenza di mercenari ciadiani oltre confine…
«Quello che può succedere qui in Ciad è sempre un’incognita – ammette don Nur -. La nostra zona, però, è abbastanza tranquilla, anche perché è fuori dai giochi di potere. Nel bene e nel male. Nel senso che siamo molto marginalizzati e abbandonati a noi stessi, ma al contempo non subiamo più di tanto i contraccolpi delle crisi politiche e dell’instabilità del Paese e dei nostri vicini».
E così, con l’équipe di Novara e la giovane piccola Chiesa del Ciad, padre Nur prova a dare sostanza a un cammino fatto di gioie e sofferenze, di fatiche e bellezza: «Ringraziando sempre il Signore di avermi chiamato a spezzare il pane e la Parola con la gente di qui».