Dall’Amazzonia alla vita di clausura

Dall’Amazzonia alla vita di clausura

È bresciano, ma da quarant’anni lavora in Ecuador, prima tra i “kichwa” poi come vescovo di Portoviejo. E ora, a pochi mesi dal Sinodo dedicato all’Amazzonia, mons. Lorenzo Voltolini ha scelto la vita monastica

 

«Suma kausai»: sono in lingua kichwa le prime parole di mons. Lorenzo Voltolini, seduti al tavolo di casa sua. «È il concetto di vivere bene, vivere in un modo che dia veramente felicità», spiega rispondendo al nostro desiderio di saperne di più su questa antica filosofia indigena che attraversa tutta l’America Latina e che oggi sembra l’unica alternativa ad un sistema economico che uccide, per dirla con Papa Francesco. «Per noi il suma kausai viene non solo da quello che si mangia, si beve o si vive, ma anche dal tipo di spiritualità che si ha. Se come preti e come cristiani siamo capaci di vivere quello che impariamo, e soprattutto di seminare, stiamo dando un apporto molto bello al “vivere bene”». Fa caldo nel centro di Portoviejo, sulla costa dell’Ecuador, piccolo Paese incastonato tra l’Oceano Pacifico a ovest, la Colombia a nord, il Perù a sud e il Brasile a est. Piccolo ma estremamente ricco di biodiversità, con una fascia amazzonica dove i fiumi che scendono dalle Ande diventano navigabili, una zona di sierra tra i 2.000 e i 4.000 metri di altitudine, e una parte di costa abitata da pescatori e campesinos. Stare qui significa conoscere lo sconvolgimento periodico di fenomeni naturali come le piogge alluvionali chiamate El Niño o gli attriti della faglia di Nazca, che dal Cile arriva fino alla California.

Monsignor Lorenzo Voltolini, 70 anni, della sua Brescia ha mantenuto una leggera inflessione e l’evidente pragmatismo. Stile essenziale – camicia bianca e pantaloni scuri, croce di semplice metallo, scarpe comode per muoversi di continuo – era vescovo dal 1993. Finché – a sorpresa poche settimane fa – ha compiuto una scelta spiazzante e radicale, accettata da Papa Francesco il 14 settembre scorso: ha rinunciato al governo della diocesi per entrare presto in monastero. Scelta coltivata in questi due anni di grandi fatiche impiegati letteralmente a rialzare la sua comunità dalle macerie. Ci porta nella cattedrale a vedere i segni del terremoto che ha vissuto in prima persona nell’aprile 2016. «Mille morti, 12 mila edifici distrutti – racconta -. La scossa peggiore è avvenuta un sabato all’ora di cena, quando molta gente era fuori. Un giorno prima che ricominciassero le scuole. Sono crollati edifici dove solitamente studiano 900 bambini, poche ore di differenza e sarebbe stata una tragedia inimmaginabile». Al momento della scossa anche lui era fuori casa e stentava a reggersi in piedi. Poi, tornando verso la cattedrale, si è imbattuto nei primi cadaveri.

Preti e laici del posto raccontano di un Voltolini in prima linea nella ricostruzione: lasciata la casa vescovile come ricovero per feriti, malati e sfollati, si è trasferito a vivere tra la gente per condividerne le sofferenze e dare una mano. «Come Chiesa abbiamo cominciato subito a ricostruire case anche grazie ai molti donatori che hanno premiato il nostro modo di operare. La gente qui non vuole essere mantenuta, chiede l’aiuto necessario a poter riprendere le attività lavorative, agricole o commerciali. Abbiamo mobilitato le Chiese locali e creato quattro commissioni di lavoro: distribuzione generi alimentari, distribuzione medicinali, assistenza psicologica e spirituale, messa in sicurezza delle case». Monsignor Lorenzo vanta l’impegno congiunto con aziende e università per ottenere materiali edilizi da distribuire agli abitanti, verificando le condizioni e le necessità effettive di ogni edificio.
Laddove i camion militari governativi effettuavano una distribuzione scriteriata di beni, l’attenzione delle suore della Caritas permetteva di portare assistenza a chi non riusciva nemmeno ad uscire per accalcarsi in strada.

Il sisma ha devastato in profondità anche villaggi e tenute agricole nel resto della regione. Don Juan Carlos, parroco a San Vicente e Canoa, un’ampia zona popolare e rurale di fronte alla turistica Bahia de Caraquez, ci ha accompagnati in diverse comunità sulla costa e nell’entroterra: si vedono ancora muri sventrati, cumuli di macerie, piazzole brulle, dove prima sorgevano case o fattorie; si racconta di intere stalle sprofondate con tutti gli animali. In parrocchia, don Juan Carlos ha accolto una famiglia di rifugiati venezuelani per l’attuale crisi del dopo-Chavez: il padre sta lavorando duramente come muratore per la ricostruzione di case e cappelle, ora in mattoni, ora in bambù, come usa nell’interno. È il circolo virtuoso della solidarietà.

Sul promontorio di San Vicente, in uno dei barrios più poveri, con la benedizione di Voltolini è cominciata la costruzione di un Santuario della Guardia che svolga la funzione di casa di formazione al Vangelo e alla solidarietà. Per ricostruire non solo gli edifici ma soprattutto una cultura popolare del bene comune, della prossimità, attraverso percorsi di fede adulta e consapevole. Il progetto è nato su impulso di don Matteo Moretti, giovane prete genovese incardinato in Ecuador e collaboratore del vescovo soprattutto per la formazione itinerante sui documenti di Papa Francesco. «È dal suo esempio che riceviamo le linee fondamentali per la formazione dei sacerdoti – commenta Voltolini -. La proposta di una semplicità tangibile, una vicinanza, una capacità di andare a cercare le persone, di apprezzare tutti senza escludere nessuno, lasciare da parte il giudizio e vedere le cose buone che ci sono negli altri. Se il sacerdozio è vissuto come un modo per fare carriera, per campare e sentirsi importanti nella società, non vale la pena di percorrerlo». Rischi non così astratti nella Chiesa latinoamericana, continente sulla carta cristiano e di fatto preda delle peggiori disuguaglianze, dove il tentativo di un cristianesimo che si traduca nell’uscita da situazioni di ingiustizia strutturale «incontra resistenze da tutte le parti».

Anche di questo si parlerà a Roma nell’ ottobre 2019 in occasione del Sinodo Panamazzonico. «Il rischio che viviamo periodicamente – spiega Voltolini – è un’espansione selvaggia del capitalismo, indotta (e in parte imposta).
L’America Latina è di nuovo presa di mira da alcune potenze occidentali, che non accettano le rivendicazioni di uguaglianza e la ridistribuzione delle risorse e delle terre». Porta ad esempio i nuovi trattati commerciali internazionali, necessari per via della globalizzazione e per la sussistenza economica dei produttori locali, ma spesso poco equi, aggiungendo ulteriore danno alle ingiustizie già subite in passato. «Ci chiamano “Paesi in via di sviluppo”, ma abbiamo già visto lo sviluppo dove va a finire. Dovremmo essere considerati piuttosto Paesi che stanno tentando vie nuove, che potrebbero anche giovare ad altre nazioni».

Anche in Ecuador molte delle aree costituite da Amazzonia e Sierra vengono sfruttate per le risorse petrolifere, senza alcun criterio di sostenibilità ecologica. Sarà uno degli argomenti centrali del Sinodo, in quanto emergenza con ricadute sull’intero pianeta, oltre che questione di sopravvivenza per le migliaia di comunità indigene. «Ho lavorato con loro 14 anni, i primi che ho passato in Ecuador come sacerdote fidei donum, a Lacatunga», ricorda il vescovo. Sebbene consapevole dei crimini compiuti anche dalla Chiesa nel processo storico di evangelizzazione e conquista, monsignor Lorenzo ha scoperto «che sono molto di più le ricchezze che la Chiesa ha portato loro. Spesso ha difeso e difende gli indios dalle angherie degli sfruttatori. La Chiesa si è impegnata a livello di cultura e di educazione, ha integrato e favorito l’arte indigena come provano ad esempio le eccellenti testimonianze di oreficeria nella cattedrale di Quito». La stessa lingua kichwa, portata dagli inca, è stata assunta dai missionari per semplificare l’annuncio del Vangelo a fronte delle decine di dialetti esistenti, favorendo così la nascita di una lingua indigena comune. «Tra gli indigeni e i campesinos, tra la sierra e l’oceano dove ho vissuto in questi quarant’anni, ho imparato un Vangelo della gioia» ci tiene a rimarcare.

Anche per questa capacità di farsi “ponte” tra culture e linguaggi diversi dal 2017 Papa Francesco lo ha voluto come liturgista nella Congregazione per il Culto Divino. Nel suo sguardo, mentre ci spiega i rudimenti del kichwa, traspare l’ammirazione per una filosofia di vita e di comunità largamente minacciata dall’aggressione del consumismo e dell’individualismo. E c’è certamente anche questa ricerca, ora, dietro la scelta di entrare a settant’anni in monastero. «Mi sento un poco stanco soprattutto dopo il terremoto del 2016, che ha sconvolto il ritmo della mia vita – ha scritto in una lettera agli amici -. Penso sia saggio lasciare ad altri più giovani e capaci di amministrare una Chiesa locale in crisi positiva di crescita».

Il monastero trappista di Salcedo non è lontano dalla parrocchia in cui ha lavorato con le comunità indigene. La sua grande libertà nell’ascoltare questa nuova chiamata, per desiderio di rinnovamento e di missione, ha qualcosa da insegnare a tutta la Chiesa. «In cattedrale si è spogliato di tutte le insegne e i simboli dell’autorità – racconta don Matteo Moretti – e, anche se probabilmente prenderà parte al Sinodo del 2019, in questi mesi entrerà in noviziato a vivere di essenzialità, lavoro manuale e vita comune».