Il lavoro come missione

Il lavoro come missione

Nell’area industriale alla periferia di Dacca, padre Gian Paolo Gualzetti svolge un apostolato molto particolare, di vicinanza e sostegno ai giovani operai spesso costretti a lavori estenuanti, insicuri e malpagati


«In Bangladesh, la rivoluzione industriale l’hanno fatta le donne». Lo dice con la consueta pacatezza padre Gian Paolo Gualzetti, ma anche con la lucida consapevolezza di chi ci vive dentro e si confronta ogni giorno con il costo umano, sociale e culturale di quello che chiamano sviluppo in uno dei Paesi più poveri al mondo. Cinquantanove anni, originario di Lecco e missionario del Pime dal 1986, sognava i villaggi e si è ritrovato in una delle città più grandi e caotiche dell’Asia: Dacca. Oltre 16 milioni di abitanti, una concentrazione umana impressionante: rumori, colori, odori e tanta, tanta gente. Che continua a riversarsi in questa megalopoli tentacolare alla ricerca affannosa di un lavoro e di una vita migliore che spesso non trova.

Ed è proprio su questa frontiera che si colloca la missione di padre Gian Paolo. Non i villaggi, appunto, o le popolazioni tribali dove tradizionalmente operano i missionari del Pime che sono presenti in questo Paese. Non lo schema “chiesa-scuola-ostello-dispensario” che continua a rappresentare il modello classico di presenza in una nazione dove quasi il 90% della popolazione è musulmana, mentre i cristiani – per metà cattolici – rappresentano solo lo 0,3%. Ma il mondo del lavoro di una periferia industriale dove si concentrano le fabbriche tessili che producono capi di abbigliamento per tutto il mondo. Con condizioni di impiego al limite della schiavitù o del grave sfruttamento e talvolta anche oltre. È quanto ci ricorda la tragedia del Rana Plaza del 24 aprile 2013, quando un enorme edificio commerciale di nove piani (costruito su fondamenta previste per cinque) è crollato, provocando la morte di oltre mille persone, molte delle quali giovani operaie. «C’erano anche alcune delle nostre ragazze – ricorda tristemente padre Gian Paolo -, vittime di una tragedia che si poteva evitare. Ora i controlli sono più capillari e severi sia sulle condizioni di lavoro che sulla sicurezza».

Risultato? Molte commesse di tanti marchi internazionali sono finite in Paesi come Cambogia, Myanmar, Vietnam o Laos, dove il costo della manodopera riesce a essere addirittura più basso di quello del Bangladesh e dove i controlli e le garanzie sono più labili. È un modello globale malato di economia e di sviluppo che ha inghiottito le giovani vite delle operaie del Rana Plaza, e che condiziona pesantemente le esistenze di milioni di persone costrette a lavorare con pochi diritti e per pochissimi soldi.

Padre Gian Paolo, appunto, ci vive dentro. Dalla fine del 2012 – dopo cinque anni trascorsi a Milano come direttore del Centro missionario Pime – si è trasferito a Zirani, vicino alle due Export Processing Zone (Epz), nella vasta zona industriale alla periferia Nord-ovest di Dacca, dove si concentrano le produzioni per l’esportazione: tessile, ma anche, prodotti farmaceutici, cosmetici, ceramica e molto altro. «Già nel 2005 – racconta il missionario – i miei confratelli avevano avuto l’intuizione di creare una presenza dell’Istituto al servizio dei lavoratori. Ma ci sono voluti diversi anni per realizzarla perché ostacoli e difficoltà non sono stati pochi».

Padre Sandro Giacomelli ne era stato un po’ il precursore: dopo aver trascorso lunghi anni nelle campagne del Nord, nella zona di Dinajpur, era sceso a Dacca. E qui aveva ritrovato molti dei suoi ragazzi, disorientati nella grande città, con un lavoro pesante, condizioni abitative pessime e senza riferimenti spirituali. Padre Sandro è morto in un incidente stradale nel 2007, ma la sua attenzione per queste persone viene fatta propria e portata avanti da altri confratelli. «Ancora oggi – spiega padre Gian Paolo – molti dei giovani che incontriamo a Zirani provengono dal Nord del Paese dove sono presenti le nostre missioni e appartengono alle minoranze con cui tradizionalmente operano i missionari. A Dacca si ritrovano soli, lontani dalle famiglie e costretti a orari di lavoro massacranti».

Il percorso di avvicinamento di padre Gualzetti comincia da lontano: «Quando stavo ancora nella parrocchia di Mirpur, in un’altra area periferica di Dacca, andavo di tanto in tanto con i giovani e con le suore Luigine in una delle zone della Epz. Si era creato un insediamento abitativo che, all’inizio, era molto spontaneo,. stile baraccopoli. Poi, un po’ alla volta, sono sorti molti edifici e, in seguito, anche scuole e ospedali, ma molte zone continuano a essere così, senza servizi e infrastrutture. A quel tempo, celebravo la Messa in minuscole abitazioni private o in stanzette prese in affitto, visitavo le famiglie, facevo degli incontri e poi, la sera tardi, si tornava in parrocchia a Mirpur a quaranta chilometri di distanza».

Ci sono voluti più di due anni per trovare un terreno, tra molte difficoltà e anche qualche diffidenza di fronte al progetto di una presenza cristiana in un mondo quasi esclusivamente musulmano. Non c’erano ancora stati i gravi attentati degli scorsi anni o la strage di Dacca del primo luglio 2016, con venti morti tra cui nove italiani. Ma già allora – e oggi a maggior ragione – la presenza cristiana richiede una certa prudenza e qualche precauzione, che non impediscono tuttavia la possibilità di un dialogo e di un incontro nella vita quotidiana.
«Volevamo stare dentro la zona Epz – ricorda padre Gian Paolo -, ma nessuno voleva darci il terreno. Alla fine, ne abbiamo trovato uno a cinque chilometri di distanza dall’area individuata. Successivamente si è rivelata una scelta provvidenziale, perché la zona industriale si è sviluppata proprio in quella direzione».

E così oggi il “Centro Gesù lavoratore” si trova proprio nel cuore produttivo del Bangladesh. Ospita due ostelli rispettivamente per 24 ragazzi e 19 ragazze. Chi cerca lavoro può rimanere dalle due settimane a un mese; gli operai da sei mesi a un anno; le ragazze dai tre ai quattro anni perché se non sono sposate – come nella grande maggioranza dei casi – incontrano grandi difficoltà nel trovare un alloggio. C’è anche un asilo, che è stato affidato – così come l’ostello femminile – alle tre suore dell’Immacolata che vivono nel Centro, con 20 bambini, che talvolta restano dalle 7 di mattina alle 22. Il che dà l’idea anche dello smisurato orario di lavoro dei loro genitori. E poi c’è la chiesa, dove si celebra la Messa tutti i giorni per un piccolo gruppo di cristiani e dove il venerdì – giorno festivo in Bangladesh – l’eucaristia viene animata da una comunità vasta e varia di santal e orao provenienti da Nord-ovest, nelle zone di Dinajpur e Rajshahi, di mandi o garo del Nord-est nel distretto di Mymensingh e di tanti altri. «Sono queste le occasioni in cui riusciamo ad avvicinarli – spiega padre Gian Paolo – oltre agli incontri specifici per preparare i giovani al matrimonio e al battesimo dei figli. Ma la gran parte delle relazioni si tessono in realtà la sera, quando esco per incontrare gli operai nelle loro abitazioni dopo il lavoro».

Gli spazi per la vita sociale e di fede sono veramente ridotti. Sei giorni di lavoro a settimana, orari lunghissimi per avere il beneficio di qualche straordinario, a volte turni massacranti quando ci sono consegne urgenti. Il tutto per racimolare uno stipendio che può andare dai 55 ai 100 euro al mese, straordinari inclusi.

«E prima delle feste musulmane dell’Eid, in cui si ricorda il sacrificio di Isacco – conclude il missionario – in genere gli operai lavorano anche di venerdì per poter poi avere qualche giorno di ferie e tornare dalle proprie famiglie, oltre che per ottenere il “premio” che altrimenti non avrebbero se saltassero anche solo un giorno in fabbrica. E così, la vita si trascina tra lavoro, pasti e riposo notturno. Di sociale, anzi di social, a volte c’è solo il cellulare».