Deforestazione, la lebbra dell’Amazzonia

Deforestazione, la lebbra dell’Amazzonia

Padre Giovanni Mometti ha passato in Brasile più di 60 anni. Momentaneamente in Italia, nonostante i suoi 83 anni è pronto a ritornare in Amazzonia per portare avanti il suo progetto Nuovo Mosè.

 

Era il 1956 quando padre Gianni Mometti – salesiano originario di Bornato (Bs) – sbarcò come missionario in Brasile sulle coste di Recife. In Amazzonia ci arrivò tre anni dopo per dedicarsi ai poveri e ai lebbrosi di questa preziosa regione. Il 1956 fu un anno cruciale per il Brasile, che vide l’ascesa al governo di Juscelino Kubitschek. Nel 1960 la capitale venne spostata da Rio de Janeiro a Brasilia, al centro del Paese, e cominciarono a essere costruite tutte le principali arterie autostradali.

Per darci un’idea di quanto siano cambiati i tempi, Padre Gianni ricorda quando negli anni ’50 le strade esistenti erano solo sterrate e un viaggio che oggi in macchina dura 4 ore al tempo sarebbe invece durato più di 12 ore di viaggio.

Se da una parte i progressi in Brasile sono stati moltissimi, dall’altra la costruzione di nuove vie di comunicazione è stata accompagnata dalla deforestazione dell’Amazzonia. Con l’inizio della dittatura militare e la successiva creazione dell’autostrada Transamazzonica è cominciato un periodo nero per la foresta pluviale. L’arteria, iniziata nel 1970 e inaugurata due anni più tardi, ha aperto la via ai taglialegna e ai latifondisti, migliorando la possibilità di trasporto del legname.

È proprio nell’ottica di contrastare la deforestazione e aiutare i poveri del Brasile che padre Gianni ha dato vita al progetto Nuovo Mosè, nello stato di Parà, dove risiede tuttora. “Nuovo Mosè è un’alternativa alla deforestazione dell’Amazzonia”, risponde padre Gianni quando gli si chiede di parlare dell’iniziativa.

Oggi nel Parà gran parte del territorio è destinato al pascolo, ma per ogni capo di bestiame è necessario almeno un ettaro di terra. A sua volta un capo di bestiame può fornire solo 250 chili di carne. Ma il pascolo non è il destino delle regioni amazzoniche, che presentano uno strato superficiale di terre molto fertili (chiamate varzeas) e poi uno strato sabbioso, perché l’Amazzonia in origine era un oceano.

Suona quindi profetico il nome Nuovo Mosè. Come le acque del Nilo rendono fertile il territorio circostante e hanno salvato il popolo di Dio durante la fuga dall’Egitto, così le acque dei fiumi che scorrono in Amazzonia potranno forse salvare questa regione dalla deforestazione. È sull’equo sfruttamento delle risorse, quindi, e in particolare delle acque, che si basa Nuovo Mosè, attivo dal 1989 nelle regioni Bragantina e Salgado dello stato brasiliano del Parà.

Ad ogni nucleo familiare vengono affidati 5 ettari di terreno in concessione dallo stato. Di questi uno viene trasformato in un laghetto, dal quale viene ricavata una piana per la coltivazione del riso. Intorno alla piana vengono allevati avannotti per un totale di circa diecimila unità di pesce, mentre sugli argini del laghetto viene costruito un porcile per maiali, i quali a loro volta alimentano i pesci con il plancton. Gli altri quattro ettari vengono gestiti dalla famiglia per il proprio sostentamento. Con questo semplice modulo e senza abbattere una pianta si possono ottenere dalle 40 alle 60 tonnellate di alimenti.

Un circolo ecologico virtuoso quindi quello messo in piedi da padre Gianni. “Noi ce ne approfittiamo dell’acqua per creare varie tonnellate di alimenti, quindi è davvero un progetto alternativo!” esclama il missionario.

Circa il 20% del territorio amazzonico è stato ormai distrutto, ma “andare avanti a questi ritmi vuol dire commettere il nostro stesso suicidio perché un terzo dell’ossigeno mondiale è presente nell’atmosfera grazie alla foresta amazzonica”.

Alla domanda su quali siano i problemi a cui deve far fronte il programma ora, padre Gianni parla unicamente delle difficoltà finanziarie. Infatti il progetto venne inizialmente finanziato dalla CEI, che nel 1993 donò 200 milioni di lire, mentre oggi le uniche risorse disponibili sono piccoli aiuti provenienti dall’Italia grazie all’associazione Anellino nero-verde, creata dallo stesso missionario a Brescia, sua città natale.

“Io ho lavorato con i lebbrosi per 43 anni” racconta ancora il missionario, “E oggi la lebbra si cura in 6 mesi. L’Amazzonia appare sempre più come il corpo dei lebbrosi, pieno di macchie a causa della deforestazione”. Se per la malattia ci sono i farmaci, per curare l’Amazzonia l’unica soluzione è ricorrere a progetti alternativi come Nuovo Mosè che creino alimenti per i poveri.

Tuttavia, se ogni laghetto produce circa 15 tonnellate di pesce e le famiglie che fanno parte del progetto sono più di 2000, è chiaro che tutta la produzione ittica (che mensilmente può arrivare fino i 7 milioni di pesce) non può essere del tutto consumata internamente.

“La produzione di avannotti è così vasta che potremmo ripopolare tutti i fiumi dell’Amazzonia che negli ultimi anni hanno visto un drastico calo della fauna ittica. Ma sono necessarie celle frigorifere per conservare il pesce e trasporti efficienti per poterlo mandare ad altre comunità, la logistica è fondamentale”.

Però al momento i fondi mancano e paradossalmente l’iniziativa rischia di “fare un buco nell’acqua”. Padre Gianni si auspica che si possa creare una sinergia a livello internazionale affinché il progetto continui a vivere. I terreni sono demaniali, quindi sono concessi dal governo brasiliano per 99 anni. Secondo padre Gianni bisogna agire al più presto “perché chi ha più soldi potrebbe arrivare prima di noi”.

Il missionario conclude dicendo che in effetti anche in Italia la realtà è cambiata molto negli ultimi anni e non è facile chiedere che vengano finanziati progetti in territori percepiti come così lontani; però bisogna anche ricordare che siamo tutti debitori dell’Amazzonia per il prezioso ossigeno che ci dona, e il cui futuro è gravemente a rischio.