Il Messico dal volto indio

Il Messico dal volto indio

Parla il professor García Quintanar del Cenami, l’organismo della Chiesa messicana che si occupa della pastorale al servizio delle comunità indigene: «Un mondo da ascoltare, per crescere insieme»

 

«Vivere a contatto con le popolazioni indigene mi ha insegnato a togliermi i calzari come Mosè davanti al roveto ardente. E non solo con loro, ma nella missione a trecentosessanta gradi». Juan Manuel García Quintanar parla così della sua esperienza trentennale tra le comunità tarahumara, il popolo dei piè leggeri, come li chiamano per la loro fama di grandi corridori tre le montagne dello Stato di Chihuaua, nel Nord del Messico. Un impegno vissuto inizialmente tra i missionari maristi e sfociato poi in una responsabilità all’interno del Cenami – il Centro nazionale di aiuto alle missioni indigene, l’organismo della Chiesa messicana che si occupa della pastorale al servizio di queste popolazioni. Con lui qualche settimana fa noi missionari del Pime in Messico abbiamo vissuto il nostro annuale corso di formazione, approfondendo un tema che ci interpella sia nella nostra parrocchia mixteca tra le montagne della Costa Chica nello Stato di Guerrero, così come nella comunità a Ecatepec, nella brulicante periferia di Città del Messico a componente più mista, ma ugualmente dalla forte presenza indigena. Abbiamo colto così l’occasione per porre al professor García Quintanar anche alcune domande per i lettori di Mondo e Missione.

Chi sono le popolazioni indigene del Messico oggi?
«In Messico abbiamo 68 gruppi indigeni, con una popolazione totale che oscilla tra i 25 e i 30 milioni di abitanti sui 120 complessivi – racconta -. Altri 75 gruppi, però, sono ormai scomparsi a causa della violenza militare o delle malattie. Dei gruppi attuali 63 sono originari del Messico, mentre gli altri cinque (akateka, mam, chuj, popti, q’anjobal) provengono dal Guatemala, ma nel 1982 sono stati naturalizzati dopo la richiesta di asilo politico. In Messico sono pochi gli Stati senza una popolazione indigena tra comunità autoctone e popolazioni che migrano all’interno del Paese. Le prime – quelle rimaste nelle loro comunità – sono ancora la maggioranza. Molti lavorano la terra e così provvedono alla propria autosufficienza alimentare, vendendo anche parte di ciò che producono. La ricerca del lavoro ha portato altri, sopratutto uomini, a spostarsi verso le città, spesso come muratori. Per questo molte comunità hanno una popolazione per lo più femminile, anziana e minorenne. Chi non emigra di solito si sposa molto giovane, mentre quanti studiano fuori o partono per lavorare altrove spesso si sradicano dalla comunità».

Emigrano anche fuori dal Messico?
«Non è raro il fenomeno di chi emigra negli Stati Uniti, dove si possono trovare gruppi indigeni ben organizzati provenienti dagli Stati di Guerrero, Oaxaca, Zacatecas, Michoacàn, Yucatan. Di solito lavorano per alcuni anni, raccolgono un po’ di denaro e poi tornano nella propria terra natale. Vi sono però anche situazioni in cui, a causa dell’isolamento, rompono i rapporti familiari e costituiscono un’altra famiglia; non però con gli americani, ma più spesso con popolazioni indigene di altri gruppi. È comune incontrare negli Stati Uniti coppie formate da persone provenienti da regioni indigene che non si erano mai conosciute in Messico».

Qual è il rapporto tra queste popolazioni indigene e lo Stato messicano?
«Dipende dai governi; l’attuale presidente López Obrador sta favorendo il dialogo. Lo stile, però, è ancora molto paternalistico: si continua ad alimentare un meccanismo di dipendenza, che si è mantenuto per molti anni. Non si dedica realmente attenzione ai popoli nella loro identità, cultura, storia. Si tende solo a utilizzare provvedimenti sociali per ingraziarsi l’interesse e il sostegno delle popolazioni indigene. Così però non li si riconosce come un soggetto adulto».

E la Chiesa messicana?
«A promuovere la creazione del Cenami fu già nel 1958 il nunzio apostolico Luigi Raimondi: chiese all’episcopato messicano di fare qualcosa per le popolazioni indigene del Messico. Il nome e lo stile corrispondevano alla prospettiva della missione in voga a quel tempo: distribuzione di cibo, indumenti usati, creazione di piccoli dispensari medici nelle comunità. La “pastorale indigenista” è arrivata dopo, seguendo la prospettiva emersa nel 1979 dal Documento di Puebla dell’episcopato latino-americano con il suo invito a “essere la voce dei senza voce”. Ma è una sfida che deve ancora compiersi fino in fondo: molti membri della Chiesa, rivolgendosi a persone per lo più bilingui, credono di essere compresi e di comprendere l’identità indigena, senza prendere realmente in considerazione la loro specificità culturale e sviluppare un percorso più profondo verso di essi».

Qual è il concetto di persona nelle culture indigene?
«Cambia da cultura a cultura, ma vi sono delle somiglianze e prendo come esempio il pensiero dei nahuatl: la persona è chiamata ad essere qualcuno nella comunità e questo avviene attraverso l’esperienza degli incarichi, l’assunzione di una responsabilità di fronte agli altri. Si comincia a livello familiare: le figlie si prendono cura della casa, della cucina, del lavoro con i tessuti e i figli si prendono cura degli animali, vanno a raccogliere l’acqua, imparano a lavorare e a relazionarsi con la terra. Ed è come un allenamento per poi arrivare, una volta raggiunta l’età adeguata, a servire l’intera comunità: compiti all’interno della chiesa, impegni legati all’istruzione… A seconda di come si esegue il proprio servizio si genera fiducia e così si accede a un nuovo incarico di maggiore responsabilità. Le categorie principali della persona indigena sono il volto e il cuore. Il volto è ciò che ti permette di essere riconosciuto nella comunità a partire da ciò che fai. Il cuore, invece, simboleggia la capacità della persona di sostenere uno sforzo per servire al meglio».

Qual è stato l’atteggiamento dei missionari nei confronti della realtà indigena e quale dovrebbe essere oggi?
«Nei primi cinquant’anni dal loro arrivo i missionari si dedicarono esclusivamente all’evangelizzazione: lo fecero con grande dedizione al servizio di questi popoli. Questo creò problemi con la Corona spagnola o quella portoghese: molti religiosi furono rimandati in Europa, come accadde ad Antonio de Montesino, proprio per aver parlato contro gli spagnoli. Col tempo, poi, la Chiesa assunse sempre più spazio tra le istituzioni della Nuova Spagna, e l’altra faccia della medaglia fu un calo dell’interesse per la diversità dei popoli. Solo alla fine del XIX secolo emersero alcuni istituti religiosi, per lo più femminili, che cominciarono a mettersi in gioco in aree con popolazioni indigene.
Oggi la situazione è molto eterogenea: alcune diocesi sono molto impegnate in questo ambito, altre non sembrano interessate. La sfida è far capire che i popoli originari fanno parte del gregge a cui siamo inviati. Tra gli indios c’è grande rispetto per la Chiesa e difficilmente si oppongono a un’autorità religiosa. Ma quando si comincia a frenare le nostre parole, si accede a mondi ancora sconosciuti. È una missione in uscita: imparare la lingua, entrare nella logica degli incarichi mettendosi a servizio, non fare nulla senza il loro permesso».

Perché nella pastorale con i popoli indigeni è così importante la devozione popolare?
«Perché è il modo attraverso cui mantengono la loro fedeltà alla Chiesa. È un modo di vivere la fede dentro ai parametri che la loro esperienza permette di costruire. Furono proprio i primi missionari ad aprire uno spazio in questo senso: Pedro de Gante raccontò di come, aprendo il cortile davanti alla chiesa per la danza dei popoli, accettò un elemento di ritualità ancestrale. Dove prima si ballava per Quetzalcoatl, ora si ballava per Gesù. L’azione della Chiesa con questi popoli si è concentrata principalmente sull’amministrazione dei sacramenti e i popoli originari hanno accolto la comunione sacramentale, il battesimo, la confermazione, il rito delle esequie. Tuttavia, nella devozione popolare loro fanno esperienza di essere amati da Dio come popolo e riconoscono nella Chiesa un mediatore. È anche un’azione evangelizzatrice: la famiglia, per esempio, trasmette attraverso questi riti il buon comportamento, la partecipazione alla comunità e un particolare rapporto con i santi. È necessario accompagnare la religiosità popolare, come diceva Paolo VI, affinché non vengano intrapresi percorsi totalmente contrari al cammino della Chiesa. Ma allo stesso tempo occorre essere in ascolto delle ragioni che hanno portato questi popoli ad assumere alcune tradizioni».

Che cosa significa per te educare una comunità alla fede?
«Semplicemente condividere: vivere in mezzo a un popolo con passione, senza aspettarsi risposte, ma credendo che quanto faccio con loro seminerà qualcosa nei loro cuori. Credo nell’evangelizzazione “testimo­niale”, in cui sono gli altri a riconoscere nella mia persona e nelle mie parole i segni del legame e della presenza di Dio. In Messico quasi tutti si definiscono cattolici: per tradizione, per consuetudine o per tante altre ragioni. Ma che cosa significa davvero? Piuttosto che offrire una conoscenza accademica, le persone vanno accompagnate a fare un’esperienza di Gesù che dia senso alla vita. Proprio come ha fatto il Maestro con Zaccheo: non ha recriminato, ma lo ha fatto sentire una persona riconosciuta nella sua dignità. E questo gli ha cambiato la vita».