Mario e Claudia una storia di fedeltà

Mario e Claudia una storia di fedeltà

I coniugi Marsiaj di Verona sono partiti alla fine del 1966 per l’Uganda e da allora la loro vita è rimasta legata all’ospedale St. Luke di Angal: oltre cinquant’anni di cura e dedizione alle persone più vulnerabili

Si vede da come si muovono, da come salutano e vengono salutati; si vede dai gesti accorti, dagli sguardi scrupolosi, dall’attenzione ai dettagli. Si vede che Mario e Claudia Marsiaj sono di casa nell’ospedale St. Luke di Angal e nelle molte strutture e attività che vi stanno intorno. E non potrebbe essere altrimenti, visto che i coniugi di Verona sono arrivati in questo angolo sperduto di Uganda, al confine con la Repubblica Democratica del Congo, oltre cinquant’anni fa. E, di fatto, non se ne sono mai andati via.

Ormai non abitano più stabilmente qui, ma ci tornano almeno una volta all’anno. Perché qui, appunto, è un po’ casa loro. In questo ospedale – dove si incrociano le storie di tanti missionari e missionarie comboniani e dei volontari di Medici con l’Africa-Cuamm – c’è anche moltissimo della loro storia professionale e personale. Mario, medico e fondatore del reparto di Medicina tropicale dell’ospedale di Negrar (VR), è più riservato e molto circostanziato nei ricordi. Claudia è piena di entusiasmo e voglia di raccontare. In questo ospedale, nato su iniziativa dei comboniani come dispensario-maternità nel 1954/’56, Claudia, 27 anni, Mario, 30, e il piccolo Pierino di un anno e mezzo sono arrivati all’inizio del 1967.

«Ricordo come se fosse ieri la partenza dal molo di Venezia – racconta Claudia -; parenti e amici che ci abbracciano, la motonave “Africa” che ci attende. Un sogno che si sta per realizzare, ma anche la fatica di lasciare le persone care».

Quel sogno, come spesso succede, nasce da un incontro: quello tra due giovani che sui banchi del liceo a Vicenza  si conoscono e si innamorano. Mario ha già le idee chiare: vuole diventare medico e andare dove medici non ce ne sono, ispirato dalla figura di Albert Schweitzer. «Ben presto quel sogno diventa anche il mio», ricorda Claudia. Che non si lascia spaventare dalla maternità e dall’idea di partire con un figlio piccolissimo. Subito dopo la laurea di Mario, si mettono a disposizione di Medici con l’Africa-Cuamm, pronti ad accettare qualsiasi destinazione.

In quegli anni, i missionari e le missionarie comboniani stanno sviluppando nuove missioni un po’ ovunque nel Nord dell’Uganda – la “Perla dell’Africa” -, quasi sempre accompagnate da scuole e strutture sanitarie, di cui quella terra era totalmente sprovvista.

«All’indomani della proclamazione dell’indipendenza nel 1962 – ricostruisce il dottor Marsiaj -, il Paese ha vissuto almeno tre decenni molto difficili, a causa soprattutto della precaria situazione politica, segnata da colpi di Stato e dittatori sanguinari. Il tutto aggravato dal diffondersi di una catastrofica epidemia di Aids».

Le prime difficoltà Claudia e Mario le vivono già durante il viaggio in mare, a causa di una tempesta, e poi durante l’avventurosa risalita da Mombasa al West Nile con un’ambulanza Fiat 600 stracarica di materiali, accompagnati da fratel Annico Meloni, che avrebbe poi proseguito per l’allora Zaire. Partiti il 14 dicembre 1966, arrivano ad Angal il 3 gennaio 1967. «La prima impressione? Che qui non ci fosse niente», dice Claudia.

Il dottor Mario si mette subito al lavoro, le cose da fare di certo non mancano, anzi: «Quando siamo arrivati, l’ospedale aveva pochi posti-letto e due medici. Un po’ alla volta abbiamo aggiunto la Pediatria, una nuova maternità, la sala operatoria, e così via…».

«Io, che medico non ero, dovevo ricavarmi un mio spazio – ricorda Claudia -. Non volevo essere solo la “moglie del dottore”». E così, con la sua straordinaria energia, Claudia si impegna a imparare la lingua alur, accompagna le suore nelle cappelle dei dintorni e comincia a conoscere le donne. Luogo privilegiato di incontro è quasi sempre il mercato. «Quello che colpisce subito è l’atmosfera allegra e distesa – ricorda -. Mi affascinava la possibilità di cogliere aspetti della loro cultura, la lingua, le tradizioni, i legami fra i vari clan, i diversi ruoli della donna e anche il rapporto con lo straniero». La conoscenza  di un po’ di alur facilita il dialogo. Molte donne sono analfabete, ma si mostrano desiderose di imparare a leggere e scrivere; le suore offrono anche corsi di taglio e cucito e qualche nozione di catechismo. Claudia, con Pierino sempre al seguito, e poi anche con Elena, nata nel 1972 e ribattezzata Nyarangal (“nata ad Angal”), insegna loro i rudimenti dell’igiene e a riconoscere disidratazione e malnutrizione. Ben presto si lancia in una campagna di vaccinazioni con il sostegno dei capi-villaggio  e in quella che ribattezzò “Operazione proteine”. «Non fu facile – ricorda Mario – per mancanza di soldi, ma anche per le resistenze di molti che non credevano che saremmo riusciti a portare avanti questo progetto sul lungo periodo». Oggi, a cinquant’anni di distanza, quell’operazione è diventata un’unità strutturata del St. Luke – la Nutrition Unit – che «è il fiore all’occhiello dell’ospedale», fa notare il dottor Mario. Vi arrivano anche persone dalla vicina R.D. Congo, che stanno vivendo situazioni ancora più difficili rispetto a questa zona di savana ugandese, dove anche le piogge non sono più regolari come un tempo, aggravando siccità e rischi di carestie.

L’ospedale, dunque, che è passato in mezzo a molte tempeste – dalla guerra civile alla partenza delle comboniane e del Cuamm – resta un punto di riferimento sanitario imprescindibile per una vasta regione. E sempre in continuo divenire.

Mario e Claudia, dopo sei anni di permanenza come volontari puri, tornano in Italia, ma poi rientrano ad Angal dall’86 all’89. E da allora è un continuo avanti e indietro. «La nostra vita è tutta legata a questo ospedale», dice il dottor Mario, che qui chiamano con rispetto Mosè, il grande vecchio. Mentre Claudia è mama madit, la grande madre. Oggi, un medico italiano, il dottor Stefano Santini, con una lunga esperienza in varie parti dell’Africa, è il direttore generale. Gli altri cinque medici sono locali, così come i circa 215 dipendenti. La presenza di personale straniero è ridotta al minimo e si limita a missioni a tempo determinato. Che sono tuttavia estremamente preziose per consentire all’ospedale di crescere e migliorare e per favorire la formazione continua del personale locale affinché sia sempre più competente e preparato. Il dottor Marsiaj gira con discrezione nei vari reparti: tutti lo conoscono e lo rispettano, ma lui non fa nulla per imporre una presenza che potrebbe essere molto ingombrante. L’ospedale  –  che fa parte del sistema sanitario distrettuale di Nebbi – ha 220 posti-letto e quasi 14 mila ricoveri l’anno più 30 mila visite ambulatoriali. E, nonostante i molti sforzi, non è ancora in grado di reggersi economicamente. Il contributo del governo è largamente insufficiente e i pazienti sono troppo poveri per pagare il ticket, che dunque viene tenuto molto basso.

Perché l’ospedale possa continuare a essere accessibile a tutti, Mario e Claudia hanno deciso di creare l’associazione “Amici di Angal”, che dal 2001 raggruppa, appunto, molti amici del St. Luke, ma anche compagni di scuola e di università, che li seguono fin dall’inizio con vari gruppi di appoggio. I bisogni del resto non mancano, anche perché, in tutti questi anni, attorno all’ospedale sono nate o si sono consolidate molte altre realtà. Come la scuola materna, che oggi accoglie circa 280 alunni e offre un luogo protetto e stimolante a molti bambini. Ma anche la scuola elementare dove sono stati inseriti pure studenti non vedenti, sfidando la malattia e i pregiudizi.

Claudia prende per mano una di loro, molto timida e diffidente. È abituata a essere abbandonata in un angolo senza alcuna attenzione; fa fatica a fidarsi. Poi, però, un insegnante le parla con delicatezza e l’aiuta a sfiorare alcune schede con animali e oggetti in rilievo; sono arrivate da poco e saranno un utile strumento per l’apprendimento suo e di altri bambini svantaggiati. C’è anche un laboratorio, dove realizzano piccoli oggetti di artigianato che valorizza la loro manualità e li fa sentire utili e riconosciuti.

«Cerchiamo di tenere viva l’attenzione soprattutto nei confronti dei più poveri e vulnerabili – dice Claudia – e per chi rimane ai margini, come i disabili o i malati di Aids». Questi ultimi restano un grande problema nel Paese, anche se la situazione è decisamente migliorata: i bambini orfani a causa dell’Aids, in particolare, sono moltissimi. Per questo gli “Amici di Angal” cercano di aiutare le famiglie allargate che si fanno carico di questi piccoli e che spesso sono, esse stesse, molto povere. Così come si cerca di sostenere con un apposito fondo – il Samaritan Fund – le persone che non possono pagare neppure le modeste rette richieste dall’ospedale, i farmaci salvavita o quelli per i malati cronici. Un piccolo progetto è dedicato ancora oggi a fornire cibo a persone in condizioni di grave deprivazione.

Nonostante le difficoltà affrontate in tutti questi anni e quelle che continuano a  ripresentarsi, i coniugi Marsiaj sono convinti che proprio ad Angal hanno trascorso i momenti più belli della loro vita. «In questo villaggio nella savana del Nord Uganda, in questo ospedale dove tante storie si sono intrecciate – dice il dottor Mario – io e Claudia abbiamo trascorso gli anni più importanti del nostro matrimonio e i momenti più belli con i nostri figli, sentendoci al tempo stesso tanto importanti e tanto impotenti».