Aung San Suu Kyi riapre il fronte coi generali

Aung San Suu Kyi riapre il fronte coi generali

Il parlamento del Myanmar ha approvato il primo passo verso la formazione di un comitato incaricato di emendare la Costituzione, scritta su misura dall’esercito. Obiettivo: le elezioni del 2020 ormai in vista

 

A quasi quattro anni dalle elezioni con cui ha portato il suo partito – la Lega nazionale per la democrazia – alla vittoria e al governo, il simbolo della lotta nonviolenta per la democrazia e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha avviato un braccio di ferro con i militari che nel 2010, dopo mezzo secolo di potere indiscusso, avevano lasciato il potere a un governo civile senza rinunciare a vasti privilegi e a una quota di seggi parlamentari che garantisce loro potere di veto su quasi ogni decisione dell’esecutivo e del presidente.

Al centro del contrasto in corso è l’elemento di snodo tra la dittatura militare e la nuova democrazia birmana: la Costituzione scritta dagli stessi militari e approvata con un referendum nei giorni terribili del tifone Nargis che costò la vita a 138mila persone nel maggio 2008. La carta fondamentale, oltre a garantire gli interessi dei generali su risorse e traffici, a partire dalle aree confinarie, prevede che nessun birmano che abbia consorte o figli stranieri possa accedere alla presidenza federale.

Questo è stato, per Aung San Suu Kyi, vedova di un accademico britannico e con due figli della stessa nazionalità, l’ostacolo a una sua candidatura alla massima carica dello Stato. Essendo però previsto che ogni modifica costituzionale debba essere approvata con il 75 per cento più uno dei voti parlamentari e dato che agli uomini in divisa è assegnato di diritto il 25 per cento, l’icona della democrazia birmana non ha potuto finora partecipare alla corsa alla presidenza a cui sembrava destinata per il suo ruolo storico.

Il 29 gennaio, prima sfida aperta ai militari in un triennio, il parlamento ha approvato il primo passo verso la formazione di un comitato incaricato di emendare la Costituzione. I parlamentari in divisa hanno presenziato in piedi e in silenzio al voto che – nessuno ignora – mira anche a soddisfare le richieste internazionali di un impegno finalmente consono al ruolo di consigliere di stato, ministro degli esteri e icona democratica di Aung San Suu Kyi, finita sotto attacco da tempo per la sua apparente insensibilità alla sorte dei Rohingya. La fuga, iniziata nell’agosto 2017, di 800mila individui di questa etnia, perseguitata da lungo tempo e costretta ormai a vivere in grande maggioranza all’estero per sfuggire all’ultima e forse definitiva persecuzione nei suoi confronti, ha provocato una crisi umanitaria e ha portato ai militari birmani l’accusa di genocidio.

Nelle ultime settimane, alla ricerca di un più ampio consenso, Aung San Suu Kyi e altri dei leader del suo partito hanno visitato le aree abitate dalle minoranze che hanno finora aderito alla sua politica di pacificazione, volenterosa ma ancora lontana dall’essere completa o dall’avere messo fine alle violenze, in particolare nelle aree settentrionali e orientali.

Con le elezioni del 2020 ormai in vista, quella delle minoranze è una delle carte più difficili ma anche più potenzialmente proficue da giocare per il governo, che punta anche a recuperare parte della simpatia internazionale e con esso investimenti indispensabili. Allo stesso modo, un maggiore consenso anche delle minoranze verso il governo, toglierebbe prestigio e consensi ai generali. Un loro indebolimento ulteriore potrebbe convincerli a rinunciare al potere sul paese in cambio di ampie concessioni in termini economici e di immunità.