AL DI LA’ DEL MEKONG
Ciò che salva l’amore

Ciò che salva l’amore

Sothie alla richiesta del professore di spiegare «che tipo di salvezza è quella del Cristo in croce», non ha saputo rispondere e la domenica dopo mi ha girato la domanda. Anch’io, lì per lì, ho fatto fatica…

«Nulla assomiglia tanto al Paradiso
quanto un conto in banca ben fornito» (1)

Sothie è un giovane di ventidue anni, curioso e intraprendente. Le circostanze della vita ne hanno però rallentato il passo e frequenta ancora l’ultimo anno del liceo. Per il momento non ha ricevuto il Battesimo anche se vorrebbe, ma aspettiamo che termini la scuola e manifesti un po’ più di coraggio. Tant’è che alcuni giorni fa, nel corso di una lezione sulle diverse religioni, alla richiesta del professore di spiegare «che tipo di salvezza è quella del Cristo in croce», non ha saputo rispondere e la domenica dopo mi ha girato la domanda. Anch’io, lì per lì, ho fatto fatica!

Da queste parti il sentire comune, influenzato da un certo retaggio culturale cinese, intende la religione come mezzo per ottenere tre cose: la salute, la prosperità (tanto più economica), l’armonia nelle relazioni. L’iconografia religiosa sempre di ascendenza cinese, presenta spesso la figura del Budda di colore oro e di fattezze abbondanti, prosperoso e sorridente. Sono i tratti della fortuna e del successo. Della salvezza, appunto. Una religione, con le sue pratiche e i suoi rituali, dovrebbe servire a questo. Non a crocifiggere, ma a guadagnare e possibilmente godere.

È evidente che in un simile contesto, «nulla assomiglia tanto al Paradiso quanto un conto in banca ben fornito». Almeno fino a quando un qualsiasi Monte dei Paschi, in versione aggiornata con gli occhi a mandorla, non decida di piantarci in asso. Se poi persino i legami più cari cominciano a cedere, finiamo con l’accontentarci di partner inumani, di cani, di gatti, fieri di comprare loro cibo gluten-free. A un passo dall’idolatria, finiamo con il mettere la nostra libertà e intelligenza nelle mani di un indovino o di un qualsiasi amuleto pur di avere «un qualche godimento e soprattutto una sicura quiete» (2).

Tornando a Sothie e alla domanda su «che salvezza è quella del Cristo in croce», ho trovato nel viaggio del patriarca Abramo una prima ispirazione che “ribalta” la religione. Abramo infatti lascia la sua terra, ma per tornare a casa, perché si muove secondo la promessa di Dio. La sua casa e la prosperità del suo popolo, sono in quella chiamata. Dopo di lui, la religione non è più questione di salute, prosperità o armonia, ma di risposta ad una chiamata. Che ha a che fare con la nostalgia di una casa, di un luogo, da cui si proviene e a cui si anela. Un casa, non un mercato o una scommessa o una vincita. Una casa, fatta di legami di origine, di genealogie, di padri, di madri, di figli. Spesso malati, fragili, perdenti. Ché poi alcuni studiosi traducano l’imperativo di Dio ad Abramo, «Vattene-Lek-leka!» con «va’ verso te stesso!», è perché la salvezza, la terra promessa, ha a che fare con quei legami che ci fanno da “dentro”.

Quanto al Crocifisso invece, traggo una seconda ispirazione dall’espressione di S. Paolo, «quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni…» (Gal 5,24). Che se na fa Sothie di una salvezza così impopolare che spesso anche noi cristiani censuriamo? Se la salute, la prosperità e l’armonia, hanno a che fare con il corpo, perché crocifiggerlo? Qui il Cristianesimo si gioca tutto. Sarebbe “facile” ricorrere ad un santo qualsiasi, ma preferisco un maestro di segno opposto, Gabriele D’Annunzio.

Nel suo romanzo, Il trionfo della morte, Giorgio, il protagonista, ama e possiede la sua donna. Spinge la passione fino all’estremo, ma ad un certo punto si ferma. Sente che non gli basta più quell’orizzonte, fatto solo dalle sue mani e dalla sua amante, sovente ridotta a preda.

Al culmine della passione-possessione – scrive D’Annunzio di Giorgio – «egli s’arrestò, invaso dall’angoscia essendo giunto al limite estremo della sensazione e non potendo trascenderlo». Gli amanti – continua – «Non parlarono più…». Insieme ma soli, dentro quell’«urto tremendo / l’urlo mortale / delle parole non nate» – scrive Antonia Pozzi in La porta che si chiude.

Qui dove si spegne l’amore degli amanti e il «limite estremo della sensazione» non basta più, con S. Paolo bisogna provare a crocifiggere la carne. Che non significa ridurre la passione, ma spingerla più avanti, oltre quel limite, passando dal sesso al senso, trasformando quella carica in una consegna di sé e della persona amata a Qualcuno che può amarla meglio e più di noi, anche se solamente attraverso di noi. Qui “crocifiggere” assomiglia a “salvare” cioè “trasformare” il possesso in una passione più alta. Amare con l’amore stesso del Crocifisso e sperare che la persona amata possa incontrare Dio. Questo è il segreto che salva l’amore.

Tornando a Sothie, mi basta che non si venda a qualche idolo, ma si spenda dentro una genealogia, una storia di relazioni vere. E non incateni a sé le persone che ama – morirebbero soffocate – ma desideri per loro che conoscano il Dio di Abramo e di Gesù.

1. S. Viderman, Il denaro. In psicanalisi e al di là, Milano 1993, 124.

2. S. Petrosino, L’idolo. Teoria di una tentazione dalla Bibbia a Lacan, Milano-Udine 2015, 87.