Giappone, la morte di una donna srilankese riapre la questione migrazioni

Giappone, la morte di una donna srilankese riapre la questione migrazioni

Ratnayake Liyanage Wishma Sandamali – 33enne immigrata srilankese – è deceduta lo scorso marzo dopo che le autorità hanno ignorato il suo malessere. La donna era in detenzione in attesa di essere espulsa dal Paese. L’episodio ha riaperto il dibattito interno sulla gestione degli stranieri che ha visto bocciare una revisione della legge sull’immigrazione che avrebbe peggiorato le condizioni di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati

Martedì 18 maggio il governo giapponese ha deciso di ritirare una proposta di revisione della legge sull’immigrazione. Una decisione combattuta, arrivata alla fine di un dibattito parlamentare che ha evidenziato i timori dell’opposizione per un peggioramento, in caso di approvazione, delle condizioni di accoglienza e selezione per i richiedenti asilo e rifugiati.

Nella discussione, l’esecutivo guidato da Yoshihide Suga aveva chiesto anche che venisse fatta luce sulla morte di una donna di nazionalità srilankese, deceduta lo scorso marzo in detenzione. Infatti, da metà gennaio la 33enne Ratnayake Liyanage Wishma Sandamali aveva iniziato a denunciare sintomi di dolore allo stomaco, ma le autorità li avrebbero ignorati, costringendo la donna a restare in una condizione di sostanziale prigionia in attesa dell’espulsione.

Successivamente, il ministero della Giustizia aveva rifiutato di fornire le testimonianze videoregistrate del peggioramento delle condizioni di salute di Wishma motivandolo con ragioni di sicurezza. Un caso doloroso che ha riaperto il dibattito interno sulla presenza di stranieri non regolarmente documentati e ha riproposto le ambiguità delle soluzioni con cui il Giappone affronta l’emigrazione, regolare e irregolare, come pure la presenza sul suo territorio di richiedenti asilo o rifugiati.

Un atteggiamento che ha sollevato frequenti critiche anche all’estero. Tra queste la volontà governativa di continuare a privilegiare l’uso sistematico della detenzione per tempo indefinito per chi si trova in attesa di deportazione anziché utilizzarlo come risorsa estrema una volta esaurite tutte le altre possibilità su base umanitaria. A conferma, la proposta di revisione avrebbe sostanzialmente – per le opposizioni – violato il principio accoglienza umanitaria consentendo l’invio coatto degli irregolari nei Paesi da cui erano partiti, in molti casi mettendoli a rischio di serie conseguenze.

Nel 2019 le autorità nipponiche hanno concesso asilo a meno dell’1% dei richiedenti. Un’eccezione tra i Paesi più sviluppati. Impietoso il confronto con la Germania – il termine di paragone più immediato – che ha accolto il 53% di coloro che avevano chiesto di restare nel Paese. In modo simile alla Germania, anche la terza potenza economica mondiale ha bisogno di forza lavoro che compensi il calo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione. L’immigrazione regolare – fortemente contingentata e accolta prevalentemente dal Sud-Est asiatico – ha visto negli ultimi tempi maggiori possibilità, ma le porte restano sbarrate per chi fugge da situazioni di forte difficoltà economica, da conflitti o da persecuzione.

Davanti a crescenti pressioni da parte di governi e organizzazioni internazionali, Tokyo ha sempre ignorato le critiche e le richieste di un ruolo umanitario che superi i pur consistenti contributi all’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati. Conseguenza anche della morte nel 2019 di un migrante nigeriano che stava attuando lo sciopero della fame in un centro di detenzione di Nagasaki, nel 2020 il ministero della Giustizia aveva incaricato un apposito sottocomitato di individuare una evoluzione delle leggi in vigore. Ne era uscito un testo – quello ora bocciato – che proponeva l’impossibilità per i richiedenti asilo di accedere alla condizione di rifugiato (rendendo “complici di attività criminali” legali e attivisti che li avessero sostenuti nella richiesta) e la criminalizzazione di coloro che avessero ignorato l’ordine di espulsione.