La Cambogia e il partito unico di Hun Sen

La Cambogia e il partito unico di Hun Sen

Il leader del Partito del popolo cambogiano sempre più scoperto nel suo tentativo di spazzare via l’opposizione. Forte dell’abbraccio non disinteressato della Cina

 

Diplomazie e organizzazioni internazionali sono mobilitate per moderare quella che sembra l’offensiva finale del primo ministro cambogiano Hun Sen contro l’opposizione. Con la fuga all’estero a inizio ottobre di Mu Sochua (moglie del leader dell’opposizione Kem Sokha già incarcerato) e con il suo Partito per la salvezza nazionale della Cambogia (Psnc) verso lo scioglimento, di fatto la Cambogia entra nell’era del partito unico, il Partito del popolo cambogiano controllato da Hun Sen, questo nonostante una società civile attiva e un sostanziale contributo internazionale allo sviluppo.

Ad assicurare al leader, al potere pressoché indiscusso da 32 anni, una relativa garanzia da iniziative di boicottaggio e sanzioni è la Cina, che va facendo del Paese la sua testa di ponte nel sud-est asiatico. Un abbraccio non disinteressato, che condiziona pesantemente infrastrutture, ambiente e prospettive di sviluppo, ma che non chiede contropartite in termini di diritti umani e democrazia.

Una situazione complessiva che rischia, vista dall’esterno, di delegittimare le elezioni del prossimo anno, peraltro obiettivo primo della campagna governativa. Pesa ancora l’avanzata dell’opposizione nelle politiche del 2013, che per la prima volta avevano evidenziato come il contrasto all’onnipotenza di Hun Sen si fosse trasferito dalle piazze al Parlamento, mostrando con chiarezza la saldatura tra movimenti sindacali, gruppi per i diritti umani e partiti dissidenti. Un rischio che Hun Sen non poteva più correre. Le mosse che hanno portato, in successione, all’esilio volontario del fondatore del Psnc Sam Rainsy, alla legittimazione del suo vice Kem Sokha diventato riferimento per l’opposizione fino al suo arresto il 2 settembre, alla campagna di aggressione che ha costretto la moglie a lasciare avventurosamente il Paese per rifugiarsi dalla figlia in Marocco e, infine, all’avvio delle procedure legali per arrivare allo scioglimento dello stesso partito di opposizione, sono state tappe di un processo molto chiaro in prospettiva.

I 16 milioni di cambogiani che ancora subiscono le conseguenze degli anni bui del regime dei khmer rossi, della pacificazione e della ricostruzione, che dopo decenni ancora non godono in maggioranza di benessere condiviso e condizioni accettabili di sviluppo, rischiano di trovarsi senza referenti politici in un gioco con solo due possibili sbocchi: riportare i contrasti nelle piazze con esiti imprevedibili ma sicuramente grandi sacrifici, oppure relegare l’opposizione in un limbo che delegittimerebbe quanto resta della democrazia cambogiana, avviata faticosamente sotto egida internazionale nel 1993.

Il gioco di Hun Sen di manovrare perlopiù dietro le quinte contro l’opposizione utilizzando partiti minori nemmeno rappresentati in Parlamento, dando ampio mandato alla polizia armata e incentivando azioni legali contro gli avversari, mostra ormai i suoi limiti. Non a caso – tra gli altri – sia Human Rights Watch, sia l’Unione Europea hanno nei giorni scorsi sollecitato a lasciar cadere le accuse di “complotto contro il governo” per il Psnc, evidenziando la crescente instabilità del Paese. A rischio, infatti, non sono solo il controllo semi-dittatoriale del leader oppure la libertà e anche l’incolumità dei suoi avversari. Qualche giorno fa il governo svedese ha avanzato una dura protesta al governo di Phnom Penh, ricordando – per voce dell’ambasciatrice per i Diritti umani, Annika ben David – che Stoccolma ha garantito al piccolo Paese del Sud-Est asiatico aiuti per 100 milioni di dollari nell’ultimo quinquennio (terzo nella Ue dopo Francia e Germania) e che il gruppo svedese H&M, tra i colossi mondiali dell’abbigliamento, è un partner fondamentale per l’industria che in Cambogia è prima per fatturato e per occupazione.

Un esempio che, insieme alla fragilità del Paese, evidenzia anche la sua dipendenza dall’estero. E le contraddizioni di un rapporto con Pechino che si accompagna non a caso a una politica di allontanamento delle ong e alla stretta repressiva stigmatizzata dalla comunità internazionale.