La Chiesa cattolica in Cina tra passato e presente

La Chiesa cattolica in Cina tra passato e presente

Il cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin al convegno sui 150 anni del Pime in Cina tenutosi a Milano: «Ero e sono consapevole del fatto che l’Accordo provvisorio tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese costituisce solo un punto di partenza. Ma in questi due anni ho notato segni di avvicinamento tra i cattolici cinesi che su tante questioni sono rimasti a lungo divisi. E questo è un segno importante»

 

Pubblichiamo il testo integrale del discorso pronunciato dal cardinale segretario di Stato vaticano durante il convegno «Un’altra cina» tenutosi al Centro missionario Pime di Milano il 3 ottobre 2020 in occasione dei 150 anni dell’arrivo dei primi missionari del Pime nella Cina Continentale.

Il dialogo tra Santa Sede e Cina che si sta svolgendo durante questo pontificato ha radici antiche: è la continuazione di un cammino iniziato molto tempo fa. Papa Francesco ha richiamato spesso una delle grandi figure che ha iniziato tale dialogo, Matteo Ricci, ed è tornato recentemente a parlarne dicendo: “Matteo Ricci e i suoi compagni sono entrati a fondo nella cultura locale […] e solo dopo questo percorso hanno ritenuto di affermare ‘il Vangelo può vivere anche qui’ [in Cina]. Lo stesso è successo con Roberto de Nobili in India. Curioso il fatto che entrambi fossero italiani. Questo deve far pensare: che cosa hanno gli italiani per avere questa capacità di universalizzare?”(1).

Non so se come italiani ci meritiamo sempre un simile apprezzamento, ma vorrei partire da queste parole per riflettere insieme a voi sull’apporto del Pime a questo cammino di dialogo con la Cina: anche quello del Pime, infatti, è stato un apporto decisamente italiano.

Voi oggi celebrate 150 anni di presenza in Cina ed è anzitutto un’occasione di festa, per un cammino tanto lungo e tanto proficuo, i cui frutti sono ancora oggi visibili. Ma è anche un’occasione per fare memoria di questa storia e interrogarsi sul suo significato più profondo, anche perché non è un cammino concluso: la Cina ha ancora bisogno del Pime.

Vorrei oggi ripercorrere con voi alcune tappe della vostra storia, che voi conoscete bene e che io ho avuto modo di approfondire grazie all’invito che mi avete fatto, facendo ricorso soprattutto ai vostri storici, a cominciare da p. Gheddo, che non è stato solo un bravo giornalista, ma anche uno storico valente.

Questi 150 anni sono iniziati con l’arrivo dei missionari del Pime in Henan. Ma fin dal 1858 il Pime è presente ad Hong Kong, che Propaganda Fide considerava di grande importanza per le missioni in Cina. Propaganda scelse infatti di affidare Hong Kong al Pime proprio per questo: era bene che il procuratore di Roma ad Hong Kong, cui facevano capo tutte le congregazioni missionarie in Cina, non appartenesse a nessuna di queste. E’ noto che nei secoli precedenti (ma anche nel corso dell’Ottocento) i rapporti tra Propaganda e le congregazioni missionarie non sono stati esenti da problemi, con riflessi rilevanti, anche per quanto riguarda questioni importanti quale la controversia dei riti, come ha sottolineato p. Paolo Manna (2). È una scelta che indica un legame particolare, diretto, tra la Santa Sede e il vostro istituto, valido anche oggi: la Santa Sede spera che il Pime sia sempre vicino alle preoccupazioni del Papa per l’evangelizzazione in Cina.

Tale evangelizzazione è stata segnata, fin dall’inizio, da molte difficoltà. I primi missionari segnalarono anzitutto l’ostilità delle alte classi sociali che vedevano il lavoro da loro svolto a livello popolare come un’imposizione delle potenze europee. Dovettero anche fronteggiare iniziative organizzate per cacciare i missionari stranieri e impedire le conversioni dei cinesi al cristianesimo. I motivi di tanta ostilità non erano religiosi ma di avversità verso lo straniero. I missionari del Pime subirono inoltre gli effetti negativi della “protezione” europea, compresi i conflitti tra diplomatici francesi e italiani a loro riguardo. E’ significativo che fin dal 1880 due vescovi del Pime, Volonteri e Scarella, abbiano proposto a Propaganda Fide di tenere un sinodo generale della Chiesa in Cina e di mandare un «legato pontificio residente» nella capitale per stabilire rapporti diplomatici col governo cinese. Anticiparono così gli orientamenti poi affermati dalla Maximum Illud.
I missionari del vostro istituto si distinsero subito per le loro opere di carità tra le classi popolari. Però devono essere stati capaci di sviluppare anche un dialogo con le classi più elevate se già alla fine dell’Ottocento poterono entrare a Kaifeng, la capitale della provincia di Henan, da cui erano stati a lungo tenuti lontani: era il segno di un rapporto diverso con governanti, mandarini, letterati… Più tardi padre Tacconi realizzò il suo disegno di far diventare Kaifeng la sede di una nuova prefettura apostolica. «I vescovi debbono avere le loro sedi nelle capitali — scriveva. — Così si è sempre fatto cominciando dagli Apostoli. La fede è sempre stata propagata partendo dai grandi centri».

Il disegno di una presenza sempre più calata nella società, nella cultura e nella storia della Cina mi pare espressa anche dalla notevole iniziativa di mons. Tacconi di proporsi come paciere tra due armate: i militari di Wuchang e il governo di Pechino. E’ uno dei tanti conflitti che hanno lacerato questo grande Paese dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento e delle cui conseguenze anche i missionari del Pime hanno sofferto molto. È, infatti, nelle convulsioni della Cina novecentesca che, tra il 1937 e il 1945, sei missionari del Pime sono stati uccisi in Hebei: Cesare Mencattini, Antonio Barosi, Mario Zanardi, Bruno Zanella, Gerolamo Lazzaroni e Carlo Osnaghi. Mi pare perciò particolarmente significativo che mons. Tacconi si sia proposto e sia riuscito a realizzare un patto di pace tra due armate in lotta fra loro: il 29 marzo 1912, nella cittadella cristiana di Kinkiakang, i loro capi firmarono un’intesa. Intanto, fin dal 1887 l’altro ramo del vostro istituto – quel Seminario romano per le missioni che nel 1926 si sarebbe unito all’istituto milanese – si dedicava al vicariato apostolico di Hanchung. E’ una storia resa luminosa in particolare dalla figura di san Alberico Crescitelli martirizzato nel marzo 1900.

Come ho già accennato, il cammino del dialogo tra Santa Sede e Cina ha avuto una tappa importante con la lettera apostolica Maximum Illud di Benedetto XV, che riguardava tutto il mondo ma fu pensata specificamente per la situazione cinese. Questa lettera sollecitò tutto il mondo missionario ad un ripensamento profondo che, per quanto riguarda la Cina, trovò un interprete coraggioso in mons. Celso Costantini, primo delegato apostolico in questo Paese. E’ stato Costantini a realizzare nel 1924 a Shanghai quel Sinodo cinese auspicato dai missionari del Pime già a fine Ottocento.

Anche il Pime si inserì in tale rinnovamento, soprattutto attraverso una delle sue figure più prestigiose: p. Paolo Manna. Come sapete, p. Manna – che aveva dedicato tante energie all’azione missionaria – compì un lungo viaggio in Cina nel 1929, soggiornando anche a Pechino nella residenza del delegato apostolico. Fu l’occasione per un radicale ripensamento, che lo ha portato a scrivere le Osservazioni sul metodo moderno di evangelizzazione, poi consegnate a Propaganda, in cui chiedeva un cambiamento rivoluzionario nell’approccio missionario. Tra le questioni da lui sollevate c’erano: l’“occidentalismo” dei missionari, che comprendeva anche i legami con le potenze europee; l’azione di “snazionalizzare” dei cattolici locali; le carenze nella formazione e nella promozione del clero autoctono; la scarsa penetrazione nella società locale e la scarsa conoscenza della sua cultura da parte dei missionari ecc. P. Manna metteva in discussione il concetto stesso di missioni estere. “Il nome dice l’errore: sono di fatto, in mezzo ai paesi infedeli, dei veri organismi esteri, condotti da personale estero, sostenuti da danaro estero, appoggiati troppo spesso a protezioni di governi esteri”(3). Occorreva invece fare come gli Apostoli: non impiantare se stessi nelle diverse situazioni, ma fondare la Chiesa locale. Era un programma coraggioso e innovativo, su quella linea che da Benedetto XV porta a papa Francesco, rivolta più al futuro che al presente, più alla Chiesa che deve crescere in Cina che ai contenziosi ecclesiastici di ieri e di oggi, più all’annuncio del Vangelo in questo grande Paese che alle regole o ai metodi ereditati dal passato.

Durante la guerra sino-giapponese, la Santa Sede raccomandò in molti modi ai missionari di spendersi per la popolazione cinese. E’ ciò che fecero i missionari del Pime con la loro vasta opera di evangelizzazione e di assistenza – scuole, ospedali, dispensari, orfanotrofi e molto altro (4) – che raggiunse il suo culmine quando i nazionalisti fecero saltare la diga sul fiume Giallo, inondando enormi distese di terre coltivate e sommergendo centinaia di villaggi. In questo contesto bellico i missionari del Pime – come gli altri missionari – sperimentarono in modo più acuto e diretto gli effetti di una diffidenza diffusa verso lo straniero in genere e crebbe di importanza il ruolo svolto da sacerdoti e fedeli cinesi a sostegno dell’opera dei missionari.

Finita la guerra, si sperò di poter tornare ad una situazione di normalità e, anzi, di poter avviare una nuova e più intesa stagione missionaria. Contribuirono a queste speranze le relazioni diplomatiche che si erano intanto instaurate, cui seguì nel 1946 l’arrivo dell’internunzio Riberi a Nanchino; nello stesso anno fu presa la decisione di erigere in Cina la gerarchia cattolica ordinaria e fu creato il primo cardinale cinese che sarebbe diventato poco dopo il primo vescovo cinese di Pechino. Un’altra decisione importante, che spesso non viene ricordata, è la nomina del primo vescovo cinese di Shanghai nel 1949, che Pio XII salutò con entusiasmo ricordando che il vero obiettivo dei missionari era la creazione di una Chiesa locale con pastori locali. Era la linea avviata da Benedetto XV che continuava a dare frutti.

In questo clima si diffuse un atteggiamento di forte ottimismo sul futuro della Chiesa in Cina. Tra i motivi di tanto ottimismo c’era anche l’attivismo di mons. Yubin, molto legato ai nazionalisti e convinto che sarebbero stati questi a prevalere in Cina. La Santa Sede però ha sempre nutrito perplessità verso questo vescovo e le sue scelte molto politiche, come mostrano i documenti degli archivi vaticani che stanno emergendo. Nel difficile e travagliato passaggio alla Repubblica popolare cinese, infatti, l’atteggiamento di Pio XII, della Segreteria di Stato e di Propaganda Fide è stato ispirato da ragioni da motivi di prudenza assai più pastorali che politici. Anche il Pime condivise l’ottimismo di quegli anni, che lo spinse a fare scelte generose nei confronti del mondo cinese. Nel suo viaggio in Cina del 1948, il superiore generale del Pime, p. Luigi Risso si rese conto che il comunismo era destinato a vincere e che si apriva un periodo di grandi incertezze. Con l’avvento della Nuova Cina, Pio XII esortò i missionari a restare al loro posto, anche a prezzo di gravi sacrifici, e moltissimi lo fecero, anche del Pime.

Per i dirigenti della nuova Repubblica popolare cinese, ma anche per molti intellettuali non comunisti come ha scritto p. Lazzarotto, “le missioni cristiane […] apparivano anzitutto come espressione dell’aggressione imperialista” (5). In un quadro già molto difficile si inserì un evento estraneo ai problemi cinesi: la scomunica del 1 luglio 1949, legata soprattutto ai processi da poco conclusi contro i vescovi cattolici in Europa orientale. La notizia giunse in Cina come una sorpresa, la Chiesa cattolica divenne più vulnerabile all’accusa di anticomunismo. Le autorità del nuovo regime ipotizzarono un tentativo vaticano di creare una “Santa Alleanza” del XX secolo, coinvolgendo tutte le nazioni anticomuniste in una crociata contro il comunismo (6).

Cominciò l’espulsione dei missionari stranieri. A Kaifeng mons. Pollio fu arrestato, processato, incarcerato e infine espulso. Di lui tracciò un grande elogio mons. Riberi quando fu sottoposto ad interrogatorio a Nanchino. Tra le accuse che gli furono rivolte, infatti, ci fu anche quella di aver scelto mons. Pollio come vescovo di Kaifeng. Riberi colse l’occasione per “dichiarare perentoriamente l’ammirazione che nutriva[a] per l’arcivescovo di Kaifeng, amatissimo dai cinesi e degnissimo pastore, unicamente sollecito del bene religioso dei suoi fedeli che avevano per lui non minore stima e affetto” (7).

Con l’espulsione dei missionari stranieri si delineò una grande sfida: la Chiesa cattolica sarebbe scomparsa dalla Cina? Molti cinesi, anche non comunisti ha scritto ancora p. Lazzarotto, erano convinti che le chiese cristiane, sostenute dall’estero, non sarebbero sopravvissute con l’allontanamento dei missionari e sulle sole forze dei convertiti cinesi (8). Insomma ritenevano che queste Chiese non avessero messo serie radici in Cina e che i cattolici cinesi sarebbero diventati non solo meno occidentali ma anche meno cristiani (9).

Queste previsioni furono subito messe alla prova dal repentino passaggio di consegne dai missionari al clero locale, mentre si moltiplicava le pressioni perché i cattolici accettassero il principio delle tre autonomie. Prima di essere espulso, ad assumere la responsabilità della diocesi mons. Pollio designò Stefano He Chunming, primo prete cinese ordinato a Kaifeng nel 1927. Il passaggio di consegne avvenne in modo drammatico il 29 settembre 1951. Oggetto di forti pressioni, p. Stefano aderì inizialmente al movimento delle tre autonomie ma poche settimane dopo ritrattò solennemente con una bella dichiarazione pubblica. Le autorità non reagirono – almeno pubblicamente – a tale pubblicazione e padre Stefano continuò a cercare vie di collaborazione che non implicassero né scismi né apostasie. “La linea di condotta che egli ha seguito finora – scriveva un anziano missionario – è quella di non urtare e di non rompere con nessuno, per il minor male della cristianità. E’ debolezza o avvedutezza e pazienza grande? Iddio solo sa” (10). E’ comprensibile il disorientamento di alcuni missionari davanti ai tentativi dei sacerdoti cinesi di trovare una strada per assicurare il futuro della Chiesa in Cina. Ma indubbiamente con il passaggio della responsabilità della Chiesa in Cina nelle mani di sacerdoti cinesi ebbe inizio un cammino nuovo che giunge fino a noi e di cui, nell’Hunan, sono stati i missionari del Pime a porre le fondamenta. La maggioranza dei cattolici cinesi rifiutò il principio delle tre autonomie (11) e qualcosa cambiò nella politica verso di loro: le autorità cominciarono ad insistere soprattutto sul patriottismo come dovere di ogni cattolico.

E’ in questo contesto che Pio XII si preoccupò di ribadire il suo “ardente affetto verso l’intero popolo della Cina, che fin dai tempi più remoti si è distinto fra gli altri popoli dell’Asia per le sue imprese, per la sua letteratura e per lo splendore della sua civiltà” (12); di rassicurare che “la religione cattolica non contraddice a nessuna dottrina che sia vera, a nessuna istituzione pubblica o privata che abbia a fondamento la giustizia, la libertà e la carità” e “non si oppone affatto alla naturale indole di ciascun popolo, ai loro particolari costumi e alla loro civiltà, ma benevolmente li accoglie”; di ricordare che “la chiesa non aspira” a “impadronirsi del potere terreno, né lo cerca”, ma “si sforza di propagare la verità dell’evangelo, […] cerca di promuovere la concordia fraterna fra i cittadini, consola e solleva per quanto può i miseri, e consolida e rafforza le fondamenta stesse dell’umano consorzio”; di garantire che i cattolici “a nessuno sono inferiori nell’amore di patria; ubbidiscono alle pubbliche autorità per dovere di coscienza e secondo le norme stabilite da Dio; rendono a ciascuno, e innanzitutto a Dio, ciò che è dovuto”; di precisare che la Chiesa “ non chiama a sé un solo popolo, un’unica nazione” e che non “è a servizio di una particolare potenza”. Sono parole ancora di grande attualità, perché esprimono anche i sentimenti attuali della Chiesa verso il popolo cinese e che trovano un’eco in molti discorsi di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco.

La storia successiva è stata complessa e dolorosa, in particolare dopo che ebbero inizio le ordinazioni illegittime. Ma quando Pio XII confidò al card. Costantini la sua intenzione di scrivere una condanna ufficiale di tali ordinazioni, l’anziano cardinale gli rispose: “Padre Santo è sempre la stessa storia della Chiesa – Se volessimo schivare le contraddizioni si avvererebbe il Quo Vadis […] Occorre rettificare certi metodi. Cristo ha detto: euntes ergo docente (“andate dunque e fate discepoli” Mt 28,19) noi praticamente abbiamo tradotto il comandamento così: Commorantes, docete (“restate fermi e fate discepoli”). Da tre secoli e oltre tutti i Vescovi missionari sono stranieri” (13). Pio XII pubblicò l’enciclica Ad Apostolorum principis aprendola con un ricordo sicuramente molto caro a Costantini: l’ordinazione di sei vescovi cinesi nel 1926 ad opera di Pio XI. Nell’enciclica Papa Pacelli ricordò inoltre che egli stesso aveva avuto “la gioia di erigere la sacra gerarchia nella Cina” riprendendo la speranza che fossero i vescovi cinesi i responsabili dell’evangelizzazione della Cina.

Malgrado quella dolorosa ferita, il magistero della Chiesa è continuato nella direzione intrapresa dai predecessori di Pio XII e che è stata poi proseguita dai suoi successori. Nel 2007 Benedetto XVI ha scritto che alcuni pastori “sotto la spinta di circostanze particolari hanno acconsentito a ricevere l’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio”, ma in seguito, su loro richiesta, “il Papa, considerando la sincerità dei loro sentimenti e la complessità della situazione […] ha concesso ad essi il pieno e legittimo esercizio della giurisdizione episcopale” (14). La piena comunione di tutti i vescovi cinesi con il Papa è stata poi definitivamente raggiunta nel settembre 2018 e nel messaggio scritto a commento dell’Accordo tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese, Francesco ne ha sottolineato l’importanza perché le nomine episcopali – oggetto di tale Accordo – sono fondamentali per “sostenere e promuovere l’annuncio del Vangelo in Cina e [..] ricostituire la piena e visibile unità nella Chiesa” (15).

Il confronto con le tristi previsioni sulla scomparsa della Chiesa in Cina formulate dopo il 1949 fa apparire decisamente consolante la realtà attuale. Malgrado tanti travagli e tanti limiti, nella sostanza più profonda, la sfida è stata superata: oggi, in Cina, pur con tutti i suoi problemi e le sue difficoltà, la Chiesa cattolica c’è. Dopo la partenza degli ultimi missionari nel 1954 non è nata in Cina una Chiesa del silenzio, espressione peraltro che Giovanni Paolo II non amava. Non è infatti una Chiesa del silenzio quella che – tra tanti ostacoli – continua ad annunciare il Vangelo. Negli ultimi settant’anni, molte battaglie difficili sono state perse e, talvolta, sono state perse anche battaglie che si sarebbero potute vincere se ci fosse stata un po’ più di buona volontà.

Ma è stata vinta la battaglia più importante: fidem servare. Merito dei cattolici cinesi, indubbiamente, aiutati dalla grazia di Dio. Ma merito anche dei missionari per l’azione da loro svolta finché hanno potuto restare a costo di molti sacrifici e perché gli effetti della loro opera formativa hanno continuato ad agire anche dopo la loro partenza. Forse sarebbe stato meglio se la formazione dei sacerdoti cinesi fosse stata fatta diversamente, come raccomandava p. Manna, e se importanti responsabilità fossero state affidate loro in precedenza e non a seguito di una drammatica necessità (16). Ma non c’ è dubbio che la comunità cattolica che negli ultimi settant’anni è vissuta in Cina senza i missionari è figlia della loro opera.

L’opera del Pime in Cina non è certo finita nel 1954. Molti di coloro che hanno dovuto lasciare il suolo cinese hanno continuato a seguire e ad aiutare i cattolici da loro formati. Da Hong Kong e da altri luoghi hanno continuato a tessere contatti e, appena è stato possibile, sono tornati in Cina continentale, riannodando antichi rapporti. Altri si sono dedicati allo studio della storia e della cultura cinesi oppure hanno promosso una preziosa informazione sulla vita religiosa in Cina. Io stesso ho potuto collaborare direttamente con alcuni di voi. Non farò l’elogio dei tanti che tra di voi ancora oggi si occupano della Cina meritoriamente. Permettetemi di ricordare solo padre Giancarlo Politi, recentemente scomparso, la cui opera è nota a tutti. Grazie per il vostro lavoro di centocinquant’anni in Cina, con l’augurio che possa continuare (almeno) per altri centocinquant’anni.

Oggi questo vostro lavoro – come quello di tutti coloro che vogliono servire la Chiesa in Cina – si inserisce in un contesto storico di dialogo che lo rende parzialmente diverso dal passato. L’esigenza di un dialogo tra la Chiesa cattolica e le autorità cinesi viene da molto lontano. Si è fatta sentire, infatti, fin dall’inizio della Repubblica popolare cinese. Il 17 gennaio 1951 le autorità invitarono alcuni vescovi e sacerdoti cattolici ad un incontro cui partecipò anche il Primo Ministro e Ministro degli Esteri Zhou Enlai (17). Questi assicurò che i cattolici avrebbero potuto continuare a seguire l’autorità religiosa del Santo Padre ma dovevano assicurare piena lealtà patriottica nei confronti del loro Paese. Iniziò allora il tentativo di stendere un documento contenente questi due principi, cui parteciparono non solo vescovi e sacerdoti ma anche il segretario dell’internunzio Antonio Riberi: quest’ultimo lo inviò infatti a Pechino proprio perché partecipasse a tale tentativo. Ciò mostra che fin dal tempo di Pio XII, la Santa Sede avvertì l’esigenza del dialogo, anche se le circostanze di allora lo rendevano molto difficile. Nei primi mesi del 1951, furono redatte ben quattro stesure di un possibile accordo, ma purtroppo nessuna fu considerata soddisfacente. Credo che al fallimento di tale tentativo abbiano contribuito – oltre alle tensioni internazionali: erano gli anni della Guerra di Corea – anche le incomprensioni fra le due parti e la sfiducia reciproca. È un fallimento che ha segnato tutta la storia successiva.

Si è infatti dovuto aspettare molti anni per poter riprendere la strada del dialogo. Ricordo in particolare il viaggio compiuto dal card. Echegaray nel 1980, quando la Cina aveva appena cominciato ad uscire dalla dolorosa esperienza della Rivoluzione culturale. Da allora ha avuto inizio un percorso che – tra alterne vicende – ha condotto fino ad oggi. Tutti i pontefici da Paolo VI a Francesco, infatti, hanno cercato quello che Benedetto XVI ha indicato come il superamento di una “pesante situazione di malintesi e di incomprensione” che “non giova né alle Autorità cinesi né alla Chiesa cattolica in Cina” (18). Citando il suo predecessore Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ha scritto nel 2007: “Non è un mistero per nessuno che la Santa Sede, a nome dell’intera Chiesa cattolica e — credo — a vantaggio di tutta l’umanità, auspica l’apertura di uno spazio di dialogo con le Autorità della Repubblica Popolare Cinese, in cui, superate le incomprensioni del passato, si possa lavorare insieme per il bene del Popolo cinese e per la pace nel mondo” (19). E proprio in quegli anni, come ha scritto il card. Giovanni Battista Re pochi mesi fa, “Papa Benedetto XVI [approvò] il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare” (20).

Su questo Accordo sono sorti alcuni malintesi. Molti di questi nascono dall’attribuzione all’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese di obiettivi che tale Accordo non ha. Oppure dalla riconduzione all’Accordo di eventi riguardanti la vita della Chiesa cattolica in Cina che sono ad esso estranei. O ancora a collegamenti con questioni politiche che nulla hanno a che fare con questo Accordo. Ricordo ancora una volta – e su questo punto la S. Sede non ha mai lasciato spazio a equivoci o confusioni – che l’Accordo del 22 settembre 2018 concerne esclusivamente la nomina dei vescovi. Sono consapevole dell’esistenza di molti altri problemi riguardanti la vita della Chiesa cattolica in Cina. Ma non è stato possibile affrontarli tutti insieme e sappiamo che il cammino per una piena normalizzazione sarà ancora lungo, come già prevedeva Benedetto XVI nel 2007. Tuttavia la questione della nomina dei vescovi riveste una particolare importanza. È infatti il problema che più ha fatto soffrire la Chiesa cattolica in Cina negli ultimi sessant’anni.

“Per la prima volta dopo tanti decenni – sottolineavo due anni fa – oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma” (21). Papa Francesco ha infatti accolto con animo paterno e misericordioso gli ultimi vescovi illegittimi ancora non riconosciuti all’inizio di settembre 2018. Chi conosce la storia della Chiesa in Cina – cui ho fatto cenno parlando dell’azione missionaria del Pime – sa quanto sia importante che tutti i vescovi cinesi siano in piena comunione con la Chiesa universale. Molti di coloro che non sono stati in piena comunione con il Papa nei decenni passati erano stati formati dai missionari, i quali ben conoscevano il loro cuore e la loro fede. È il caso anche di Stefano He Chunming, scelto da mons. Pollio, per prendere il suo posto nel 1951 quale ordinario della diocesi di Kaifeng. Nella grandissima maggioranza dei casi, i missionari non si sono sbagliati a riporre la loro fiducia nei sacerdoti cinesi da loro scelti. Infatti, come già ricordato, molti di loro hanno chiesto il perdono del Papa e la piena riconciliazione. Ciò mostra che, al fondo, il loro cuore non era mutato e la loro fede non era venuta meno.

Fino a due anni fa, tuttavia, la possibilità di nuove ordinazioni illegittime è sempre rimasta aperta e fino a pochi anni fa nuovi vescovi cinesi sono stati ordinati illegittimamente. Era perciò necessario affrontare e risolvere definitivamente questo delicato problema. Ma l’esperienza di tanti decenni mostrava (e mostra) che tale soluzione passava (e passa) necessariamente attraverso un accordo tra la S. Sede e le autorità della Repubblica popolare cinese. Per questo motivo la S. Sede ha ripetutamente sottolineato che l’obiettivo dell’Accordo è anzitutto ecclesiale e pastorale. Dalla sua implementazione dipende infatti la possibilità di scongiurare – si spera definitivamente – l’eventualità di altre ordinazioni illegittime. Si è voluto in altre parole, operare per evitare alla Chiesa in Cina altre esperienze simili a quelle dolorosamente vissute negli ultimi sessant’anni. Per questo, affermavo nel 2018, l’Accordo “riveste una grande importanza, specialmente per la vita della Chiesa cattolica in Cina” e sottolineavo che “l’obiettivo della Santa Sede è un obiettivo pastorale, cioè aiutare le Chiese locali affinché godano condizioni di maggiore libertà, autonomia e organizzazione, in modo tale che possano dedicarsi alla missione di annunciare il Vangelo e di contribuire allo sviluppo integrale della persona e della società”.

Ero e sono consapevole che l’Accordo provvisorio tra S. Sede e Repubblica popolare cinese del 22 settembre 2018 costituisce solo un punto di partenza. Due anni sono un periodo molto breve per valutare i risultati di un accordo. Alle difficoltà di iniziare un processo tanto nuovo si sono aggiunte quelle create dal Covid 19. Alcuni risultati ci sono stati ma perché il dialogo possa dare frutti più consistenti è necessario continuarlo. Da parte della S. Sede, perciò, c’è la volontà che l’Accordo sia prolungato, ad experimentum come è stato finora, in modo da verificarne l’utilità.

In questi due anni, intanto, ho notato segni di avvicinamento tra i cattolici cinesi che su tante questioni sono rimasti a lungo divisi. È un segno importante perché, come dicevo due anni fa, “alla comunità cattolica in Cina – ai Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi, alle religiose e ai fedeli – il Papa affida in modo particolare l’impegno di vivere un autentico spirito di riconciliazione tra fratelli, ponendo dei gesti concreti che aiutino a superare le incomprensioni del passato, anche del passato recente. In questo modo i fedeli, i cattolici in Cina potranno testimoniare la propria fede, un genuino amore e aprirsi anche al dialogo tra tutti i popoli e alla promozione della pace” (22). Molto attuale, infine, mi pare anche un altro obiettivo che ci proponevamo con la firma dell’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei vescovi: “il consolidamento di un orizzonte internazionale di pace, in questo momento in cui stiamo sperimentando tante tensioni a livello mondiale” (23).

 

Note:

  1. C. Petrini, Terrafutura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale, Giunti- Slow Food Editore, Firenze-Milano 2020, p. 38
  2. G. Butturini, Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre mondiali, Editrice Missionari Italiana, 1998, p. 108
  3. G. Butturini, Le missioni cattoliche cit, pp. 87-88
  4. A. S. Lazzarotto, La Cina di Mao processa la Chiesa. I missionari del Pime in Henan 1938-1954, Editrice Missionaria italiana 2008, p. 72
  5. Ivi, p. 112
  6. Ivi, p.125: “senza quella denuncia del Santo Ufficio, forse i tempi dello scontro tra Chiesa cattolica e Governo cinese avrebbero potuto essere più lunghi e le modalità diverse. Ma la sostanza non sarebbe cambiata”.
  7. Mons. Antonio Riberi al mons. Domenico Tardini, 18 settembre 1951, APF, Nuova Serie, volume 1766, rubrica. 21, sottorubrica 1, f. 46
  8. A. S. Lazzarotto, La Cina di Mao processa la Chiesa. I missionari del Pime in Henan 1938-1954, Editrice Missionaria italiana 2008, p. 118112
  9. Ivi, pp. 112-13
  10. Ivi, p. 408
  11. E. Giunipero, Chiesa cattolica e Cina comunista. Dalla rivoluzione del 1949 al Concilio Vaticano II, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 86, 95
  12. Pio XII, Lettera apostolica Cupimus in primis,18 gennaio 1952
  13. B. F. Pighin (a cura di), Il cardinale Celso Costantini tra memoria e profezia, Marcianum Press, Venezia 2019, p. 211
  14. Lettera di Benedetto XVI ai vescovi, ai presbiteri, alle persone consacrate e ai fedeli laici della chiesa cattolica nella repubblica popolare cinese, 27 maggio, 2007, paragrafo 8
  15. Messaggio del Santo Padre Francesco ai cattolici cinesi e alla Chiesa universale, 26 settembre 2018, paragrafo 3
  16. A. S. Lazzarotto, La Cina di Mao processa la Chiesa ncit, pp. 283, 313-314
  17. E. Giunipero, Chiesa cattolica e Cina comunista cit, p. 42
  18. Lettera di Benedetto XVI ai vescovi, ai presbiteri, alle persone consacrate e ai fedeli laici della chiesa cattolica nella repubblica popolare cinese, 27 maggio, 2007, paragrafo 4
  19. Ibidem
  20. B. Vermander, Polemiche sulla Chiesa in Cina: la tentazione donatista, “La Civiltà cattolica”, Quaderno 4074, Anno 2020, vol. I, pp. 572-581
  21. Card. Parolin: il Papa affida ai cattolici cinesi l’impegno per la riconciliazione, “Vatican Information Service”, 22 settembre 2018
  22. Card. Parolin: il Papa affida ai cattolici cinesi l’impegno per la riconciliazione, “Vatican Information Service”, 22 settembre 2018
  23. Ibidem