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AL DI LA’ DEL MEKONG
«Lui è vostro»
9 Ago 2020

«Lui è vostro»

Alberto Caccaro
Sophol ci aveva detto: «Nella Chiesa anche raccogliere la spazzatura è un gesto colmo di valore perché ogni vita, la mia vita ha valore».

Qualche giorno fa – sempre qui in Cambogia – mi trovavo in visita a due miei confratelli, p. Gianluca Tavola e p. Charles Kale. Per pura coincidenza ho potuto celebrare insieme a loro una messa di suffragio per Sophol, cattolico fervente della piccola comunità cristiana di Chum Kiri, nella provincia di Kompot, a 100 km a sud-ovest di Phnom Penh. Si trattava della messa che, secondo una tradizione mutuata dalla cultura Khmer, si celebra per il defunto a sette giorni esatti dalla morte e che chiude, per parenti e amici, il periodo del lutto.

Sophol aveva ricevuto il Battesimo nel 2018, ma frequentava la comunità cristiana da diverso tempo, da quando l’ultimo dei suoi cinque figli, finito in un giro di droga, aveva iniziato un percorso di riscatto grazie alla possibilità di frequentare la scuola tecnica dei Salesiani a Phnom Penh. Sophol non aveva particolari problemi né di salute né finanziari eppure a farlo morire è bastato quello che era sembrava solo un dolore intestinale passeggero.

Dopo la morte e in quanto unico cattolico della famiglia, ancora una volta si doveva decidere se celebrare il funerale secondo il rito buddista o il rito cattolico. Ha prevalso il rispetto della fede di ciascuno. Anzi, è stata proprio la moglie buddista ad aiutare padre Gianluca a decidere affermando che andava celebrato tutto presso la Chiesa perché «lui è vostro», aveva aggiunto. Di fatto, da che aveva abbracciato la fede cristiana, Sophol considerava la Chiesa come la sua casa. In un’intervista recente così si era espresso: «Quello che sento è che non c’è appoggio alcuno. C’è solo la fede e la speranza nell’unico Signore. Per questo posso rinunciare a tutto per il bene della Chiesa». «Ché mi da questa fede e questa speranza».

Sophol era rimasto affascinato dalla carità dei missionari e dei cristiani verso tutti, specialmente verso i poveri e i malati. Fu questa cosa a cambiarlo facendogli percepire che siamo tutti fratelli e sorelle, parte di un’unica famiglia. Non si curava delle offese ricevute a motivo della sua fede cattolica perché sempre grazie a quella fede aveva compreso quanto la sua vita fosse preziosa e quanto ogni gesto semplice e umile compiuto nella chiesa per amore di Dio, avesse la dignità di un gesto regale.

Seppur buddisti, i figli e la moglie hanno partecipato sia alle esequie che alla messa di suffragio a sette giorni dalla morte. In quest’ultima circostanza li ho visti arrivare. Padre Gianluca li aspettava all’ingresso della chiesa. Uno dei figli reggeva l’urna con le ceneri del papà che ha subito consegnato nelle mani di padre Gianluca. Queste urne funerarie in pietra scolpita sono piuttosto pesanti. Dopo qualche istante, per non affaticare padre Gianluca, quello stesso figlio avrebbe voluto riprendersi l’urna ma il missionario si è ritratto. «No, lascia pure che lo tenga con me ancora un po’», ha aggiunto indietreggiando.

I figli hanno capito, la moglie anche. Hanno capito che quel rito che stava per iniziare non era solo un rito e che quei gesti non erano semplici gesti di circostanza. Si sarebbe trattato di un congedo colmo di riconoscenza. Oh, anch’io che guardavo ho capito. Che con quell’urna padre Gianluca avrebbe voluto trattenere un po’ della fede di Sophol. Con quell’ultima stretta, con quell’ultimo abbraccio, avrebbe voluto ringraziarlo per aver vissuto un’esistenza, certo mortale, eppure carica di una promessa di eternità, aiutando la comunità cristiana ad essere tale.

Durante la Messa, mentre leggevano la lettera di San Pietro prevista dal lezionario liturgico per la festa della Trasfigurazione di Gesù, osservavo un’altro dei figli di Sophol seduto in prima fila, intento ad ascoltare e a seguire il rito sul libretto. Per non perdersi nemmeno una parola di quella lettera, certamente ascoltata per la prima volta in vita, muoveva il dito indice sul foglio, riga dopo riga, frase dopo frase, al ritmo delle parole proclamate dalla lettrice. «Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo non perché siamo andati dietro a favole – si leggeva – ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza». Il gesto d’attenzione di quel ragazzo mi è parso qualcosa di non dovuto. Eppure per questo ne ho colto la carica di rispetto e ossequio per la fede di suo papà in Gesù Cristo. «Nel mio cuore c’è una sola fede, la fede in Gesù Cristo» – aveva detto Sophol nella stessa intervista – «e nella Chiesa anche raccogliere la spazzatura è un gesto colmo di valore perché ogni vita, la mia vita ha valore».

Non avrebbe senso contrapporre la fede in Gesù alla fede nel Budda. Nella vita di tutti i giorni, queste fedi si intrecciano eppure si distinguono. Quanto affermato dalla moglie a proposito di Sophol e del suo rapporto con la Chiesa, «lui è vostro», lascia intendere qualcosa di mistico nel cuore di quell’uomo di fronte al quale anche la moglie aveva fatto un passo indietro. Perché apparteneva solo a Dio. Per sempre.

Quanto a me, ancora una volta in questa campagna cambogiana – come in verso del poeta irlandese Patrick Kavanagh – «avevo attraversato campi che non erano parte di tenute terrene».


Asia buddhismo, Cambogia, dialogo

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