AL DI LA’ DEL MEKONG
Non di solo Covid

Non di solo Covid

Il Covid-19 ci ha abituati a dare i numeri. Vorrei che fossero divulgati dati precisi e con lo stesso zelo, anche su quanto sta accadendo attraverso le pratiche anticoncezionali e più ancora le pratiche abortive

«C’è dolore. Bussa alla mia porta (…)
Non mi consegno a questa solfa di morti.
C’è un assedio di corpi
che lo so lo so sono tutti miei» (1)

Qualche giorno fa parlavo con un’amica, farmacista di provincia. Di quelle “fai da te”, alla periferia del Paese, lontana dalla capitale Phnom Penh. Pur avendo una laurea in Medicina, quest’amica non ha avuto soldi a sufficienza per comprarsi un rispettabile posto di lavoro tra i ranghi di un ospedale pubblico. Ha dovuto ripiegare organizzando un piccolo ambulatorio privato, dove riceve i suoi pazienti, con annessa farmacia che provvede i farmaci necessari alle patologie spicciole, quelle di ogni giorno. Quando sopraggiungono casi più gravi e complessi, non esita a riferirli al vicino ospedale pubblico.

Proprio perché lontana dalla capitale, è in grado di offrire uno spaccato ordinario sulle abitudini della gente da queste parti. Le chiedevo quali fossero le patologie e dunque i farmaci più diffusi, quelli d’uso quotidiano, che bisogna sempre avere a portata di mano. Con rammarico e una certa titubanza, ha dovuto ammettere che gli anticoncezionali, o la famosa pillola delle 72 ore, sono tra i prodotti più richiesti. Ascoltandola, mi sono lasciato coinvolgere, ma non sconvolgere. Perché so e sappiamo.

Lungi da me il voler biasimare chicchessia. Nondimeno, sento dolore. «Bussa alla mia porta». A questo si aggiunge una tendenza del tutto “legittima” e approvata senza ombra di dubbio. Se non funzionano gli strumenti preventivi e una nuova vita prende corpo, interviene la diagnosi prenatale a fare da filtro. Ovvero, se il nascituro non è perfetto, si procede con l’aborto, non importa a quale settimana dal concepimento. È interessante notare che il popolo cambogiano è aperto alla vita. Le famiglie vogliono figli. La sciagura peggiore per una donna è quella di essere sterile. Eppure, oggi, vale il precetto del prodotto perfetto. Se non lo è, lo si elimina. Sia chiaro, per motivi nobili e di “buon senso”. Un bimbo non sano soffrirebbe e sarebbe un costo per la collettività.

Detto questo, mi sembrano due le tendenze in atto. Quanto ai più giovani si assiste ad una progressiva erotizzazione del rapporto affettivo che spesso precipita in un esercizio precoce e immaturo della genitalità dopo il quale si deve correre ai ripari entro le 72 ore, appunto. Quanto agli adulti, come già accennavo poco sopra, vale il precetto del prodotto perfetto. Diversamente si procede ad eliminare il nascituro anche in fase di gravidanza avanzata. Volenti o nolenti, dobbiamo accettare il fatto che non sempre la madre è casa. O non sempre – direbbe la poetessa Mariangela Gualtieri – è «una tana, un guscio… una patria in cui stavo rannicchiata» (2).

Se anche solo quella piccola farmacia di provincia sembra confermare questa tendenza, non oso immaginare quanto accade nei grandi centri urbani o in paesi ben più “moderni”. Nei quali lo «svilimento burocratico della convivenza (…) incoraggia la regressione pura e semplice alla interpretazione del rapporto erotico come scenario virtuale di ogni relazione possibile dell’umano» (3).

Di questi tempi, il Covid-19 ci ha abituati a dare i numeri. Non v’è giorno in cui con scrupolosità i media non diano conto dei contagi e dei morti. I numeri sono giustamente esibiti per mettere in guardia e scoraggiare atteggiamenti impropri che mettano a repentaglio la salute di noi tutti così attaccati alla vita! Ora, vorrei che fossero divulgati dati precisi e con lo stesso zelo, anche su quanto sta accadendo attraverso le pratiche anticoncezionali e più ancora le pratiche abortive, in particolare attraverso i farmaci, siano essi delle 72 ore o ben più potenti come la pillola Ru486. Quanti embrioni non hanno potuto annidarsi, quanti feti vengono espulsi, morti, giorno dopo giorno? Contiamoli tutti. Vittime che non fanno numero, solo perché non sono da Covid-19.

In queste settimane in Italia, Avvenire ha promosso un dibattito attorno alle nuove disposizioni del Ministero della Salute per l’accesso e l’uso della Ru486. Sono temi scomodi che pochi affrontano. I quotidiani nazionali più diffusi sembra abbiano disertato o forse snobbato il dibattito. Non se ne curano e preferiscono assestarsi attorno ad una prevalente mediocrità diffusa, quella di chi li legge, quella di chi li scrive, quella di chi li pubblica.

Il discorso è complesso. Anche solo definire, per esempio, la Ru486 come un “farmaco” non sarebbe corretto. Perché un farmaco dovrebbe curare non uccidire. Ha ragione Olimpa Tarzia quando scrive che «la Ru486 non è un farmaco, la gravidanza non è una malattia e il figlio non è un virus. Dobbiamo dunque chiamarla col suo nome: una sostanza chimica che ha come scopo, dichiarato e diretto, la soppressione di un essere umano» (4).

La disinvoltura con cui si accede e si utilizzano queste soluzioni non può non avere una ricaduta in termini di solitudine, depressione, chiusura alla vita, troppo imbrattata di morte. Ebbene, ne parlo. Cioè «non mi consegno a questa solfa di morti».

 

1. M. Gualtieri, Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Torino2003, 91. M. Gualtieri, Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Torino2003, 91.
2. M. Gualtieri, Le giovani parole, Torino 2015, 39
3. P. Sequeri, «La spiritualità nel post-moderno», in Il Regno-attualità 18/1998, 641.
4. Leggi l’articolo qui 

Foto: Flickr / Aitor Gomez